La peste napoletana del 1656 non poteva essere considerata un fenomeno inatteso: presente anche in altri paesi europei e mediterranei ebbe nel XVII secolo una delle maggiori esplosioni prima di perdere definitivamente, almeno nel nostro continente, il suo carattere pandemico e ridursi a sporadici focolai facilmente controllabili. Inoltre l’amministrazione spagnola si era già misurata neanche trent’anni prima con l’epidemia di peste descritta da Manzoni nei “Promessi sposi” e che aveva falcidiato 3/4 della popolazione milanese. Eppure quell’esperienza non servì e a Napoli furono ripetuti gli stessi errori e si intervenne con lo stesso colpevole ritardo.
La peste era presente in città all’inizio del 1656, introdotta molto probabilmente da un vascello di soldati proveniente dalla Sardegna ed entrato nel porto contravvenendo ai precisi bandi vicereali che vietavano qualsiasi rapporto con l’isola dove l’epidemia era stata accertata già da qualche anno[1]; ma Viceré e Collaterale scelsero la politica del silenzio, preoccupati sia dell’ordine pubblico che delle conseguenze economiche di un blocco commerciale e dell’impossibilità di fornire un ulteriore sostegno militare allo sforzo bellico spagnolo contro la Francia polarizzato sul fronte italiano intorno alla città di Milano.
A metà maggio tale politica divenne insostenibile e il governo fu costretto ad ammettere l’epidemia e a prendere i primi provvedimenti: fu creata una commissione sanitaria (la Deputazione della Salute) e venne bloccato ogni rapporto commerciale ed ogni spostamento sia all’interno del Regno che verso i paesi esteri.
Fatto per tempo il tentativo di stendere un cordone sanitario avrebbe contribuito a contenere il diffondersi del contagio, ma a maggio non si rivelò di nessuna efficacia perché l’epidemia si era ormai diffusa, facilitata dall’intensificarsi delle pratiche di pietà e dal rapido movimento migratorio della nobiltà verso le più salubri tenute di campagna[2].
Se agli interventi tardivi si aggiunge lo stato di arretratezza tecnica e scientifica in cui versava il settore sanitario nel Seicento si comprende come l’epidemia dovesse avere il suo normale decorso, come in effetti ebbe, falcidiando la popolazione del Regno con un vertiginoso ritmo di decessi che giunse ad oltrepassare le 4 – 5 mila unità giornaliere nel periodo di maggiore intensità: le 240 – 270 mila vittime stimate su una popolazione oscillante tra i 400 – 450 mila abitanti danno l’idea della virulenza della malattia.
Nell’autunno l’epidemia sembrava essersi attenuata, ma la città appariva in condizioni pietose e il governo si trovò a far fronte a nuovi problemi di carattere socio – economico (recessione demografica, aumento dei prezzi, rifiorire del contrabbando) e alla difficile decisione dell’apertura delle frontiere e del superamento della politica d’isolamento.
La situazione caotica seguita all’epidemia, che rese più problematica la comunicazione tra governo centrale e periferico, produsse un’intensificazione del fenomeno del contrabbando della seta sulle coste tirreniche della Calabria e di quello di tabacco, sale e grano su quelle abruzzesi e pugliesi dell’Adriatico[3].
Al processo celebrato a maggio del 1658 contro il contrabbandiere Carlo Gennaro e terminato con la sua condanna a 7 anni di galera non seguirono atti significativi da parte del governo: segno che la sua volontà di combattere il fenomeno, che restava massiccio e ramificato, finì per cozzare contro il muro di omertà che legava i nobili al personale della Sommaria e al ceto forense. Tali legami e l’appoggio interessato dell’alto clero consentirono a questa classe sociale dai forti poteri economici una quasi completa immunità.[4].
Un altro fenomeno assolutamente naturale fu il forte rialzo dei prezzi che riguardò sia la mano d’opera che i prodotti manifatturieri.
Se l’economia prevalentemente agricola del Regno penalizzò soprattutto il rifornimento di tessuti e di seta i cui prezzi raggiunsero livelli altissimi, l’aumento del costo della mano d’opera fu invece abbastanza uniforme: la peste, infatti, aveva colpito allo stesso modo sia le campagne che i grossi centri.
Il fenomeno del rincaro dei prezzi fu esaminato dal Collaterale nei primi giorni del gennaio 1658 su sollecitazione dello stesso viceré che riferendo voci riguardanti una penuria di drappi e un loro prezzo eccessivo pretese un calmiere in previsione dei nuovi aumenti che si sarebbero sicuramente verificati con l’approssimarsi delle festività[5].
Il problema si trascinò lungo tutto il 1658 nonostante i tentativi del governo di arginarne la portata.
In giugno i risultati del censimento sul numero dei mercanti, tessitori e lavoranti scampati alla peste indetto per accertare se il rialzo dei prezzi fosse dovuto alla diminuzione della mano d’opera non confermò tale ipotesi; anzi il numero degli addetti al settore sembrava essersi attestato in linea generale sugli stessi livelli di quello anteriore all’epidemia. Si concluse pertanto che il rialzo dei prezzi “nasceva da malitia loro tanto più che hoggi le sete vagliono vilissimo prezzo”[6] e fu emanato un bando che impose a tutti i mercanti di drappi di seta e di tele d’oro di vendere tali prodotti allo stesso prezzo del periodo anteriore al contagio e di accertarsi che la merce fosse di peso e qualità conforme a quanto stabilito. Le pene previste per i contravventori furono sia pecuniarie (1.000 ducati per ogni volta che avessero contravvenuto al bando) che corporali a discrezione del viceré.
Anche il costo della manodopera venne calmierato: si vietò ai tessitori e ad altri lavoranti di tale arte, sotto pena di 3 anni di galera, di ricevere una retribuzione superiore a quella percepita prima del 1656 e si delegò la Vicaria a procedere nei confronti dei contravventori[7].
Ma la prammatica vicereale non risolse certo il problema: in un settore così difficile solo il tempo sarebbe riuscito a portare equilibrio.
Anche nel settore agricolo si avvertivano gli stessi problemi e furono gli Eletti del Popolo a farsi portavoce della richiesta popolare di prendere provvedimenti nei confronti del continuo rialzo del prezzo del grano e dell’orzo e di punire gli incettatori indicati come i responsabili principali del fenomeno[8].
Va dato atto al viceré di essersi interessato a cercare soluzioni possibili, al di là degli scarsi risultati delle sue prammatiche, e il fenomeno si andò lentamente attenuando.
La riapertura delle frontiere fu la scelta più tormentata.
Il permesso rifiutato a metà gennaio 1657 a don Francesco Mancini di entrare nel Regno per ricoprire la carica di economo della Reverenda Fabbrica nonostante le raccomandazioni e le pressioni dell’ambasciatore del Regno a Roma ( il viceré rispose di averlo rifiutato anche ai vascelli del re perché in una situazione simile entrare nel regno “non è conveniente nemmeno da luochi sani et con li debiti bollettini”[9]) diede l’idea che si volesse persistere anche nel nuovo anno con una politica di assoluto isolamento sebbene la peste non mietesse ormai più vittime dal finire del 1656. Era ancora forte il timore di un riacutizzarsi dell’epidemia, fomentato da episodi e notizie non sempre confermati (come lo sconfinamento nella città di Lecce di vacche ritenute contagiate provenienti dalle terre del conte di Conversano o la presenza a Nocera di uno sconosciuto proveniente da Roma)[10].
Ma già in febbraio, convinti dell’impossibilità di un controllo capillare del territorio e considerato il miglioramento generale della situazione sanitaria, Viceré e Collaterale ritennero di dover superare questa politica di isolamento. Premevano in tale direzione il languire del commercio, l’aumento costante dei prezzi, i chiari segni di insofferenza da parte della popolazione che attraverso lettere e petizioni giungevano in Collaterale, il timore di inimicarsi altri stati negando l’ingresso nel Regno agli stranieri mentre i Napoletani venivano tranquillamente accettati ovunque.
Ci si ispirò a grande cautela: fu liberalizzata la circolazione interna dei sudditi in possesso di un certificato sanitario rilasciato dalla Deputazione della Salute, furono presi accordi con i viceré di Milano e di Sicilia per adottare una comune linea di comportamento nei confronti dei sudditi della Corona, ma si lasciò al viceré la decisione più spinosa dell’ingresso di stranieri nel Regno.
L’unico parere espresso dai Reggenti fu di lasciare entrare solo chi fosse venuto per commerciare e non per fissarvi una residenza definitiva.
Accelerò questa decisione l’approssimarsi della fiera di Foggia che costituiva, con quella di Aversa, uno dei momenti chiave dell’economia del Regno come conferma l’interesse e il fervore con cui il governo ne curò la realizzazione: fu inviato un corriere al governatore di Foggia per accertarsi sulle reali possibilità di ospitarvi la fiera, essendo corsa voce di un ritorno dell’epidemia in quella città, e si individuò in Lucera la possibile sostituta perché Manfredonia, altra candidata, non garantiva acqua e foraggio sufficienti.[11]
Vennero ripresi i rapporti diplomatici con lo Stato Pontificio ai cui mercanti si concesse di venire a comprare animali senza bisogno di sottoporsi a quarantena e, per vincere le ultime resistenze del papa, il bando vicereale estese gli stessi benefici anche ai nuovi vescovi designati ad occupare le sedi vacanti del Regno. Ma questa paziente opera di diplomazia fu annullata da due notizie giunte in Collaterale alla fine di aprile: un caso di peste a Foggia, comunicato dal Credenziere della Dogana di quella città, e la pubblicazione dell’editto del papa che proibiva il commercio col Regno di Napoli.[12]
Il governo dispose accertamenti sul caso di peste promettendo pene severe al funzionario nel caso la notizia si fosse rivelata infondata e rispose all’editto pontificio emanando un bando in cui si accusò il papa di aver preso decisioni affrettate e sconsiderate e si minacciarono sanzioni severe (confisca dei beni e pena capitale) a chi avesse ripreso scambi commerciali con lo Stato Pontificio.[13]
Lentamente i rapporti si ammorbidirono perché il governo non poteva spingere oltre questa politica suicida per un paese uscito stremato dalle conseguenze della peste. Così tra la fine del 1658 e gli inizi del 1659 il commercio poté essere ripreso quasi regolarmente con la Sicilia e con Genova, anche se non furono abbandonate misure cautelari:il Collaterale ordinò alla Deputazione della Salute di vigilare che tutti i marinai fossero in possesso dei regolari bollettini sanitari e fu colto dal panico alla notizia della morte del vescovo di Salerno fulminato da una febbre maligna o al ritrovamento nel porto di Napoli di un cadavere e di oggetti risalenti al periodo della peste.[14]
L’esperienza dolorosa del 1656 servì a mantenere vigile il governo anche in seguito: nel maggio del 1663, alla sola notizia, per altro non sicura, della presenza della peste ad Algeri, si scrisse in tutta fretta in Sicilia e in Sardegna che “nelle marine del Regno si stia con tutta attenzione et che non si ammettano vascelli provenienti da Algeri”[15] e al minimo dubbio che si fosse infiltrata in Inghilterra si rischiò la chiusura degli scambi commerciali e ci si informò diligentemente presso le autorità di Genova, Venezia e Livorno.
La notizia risultò priva di fondamento ma, quando nell’estate del 1665 non ci furono più dubbi sulla presenza della peste sul suolo inglese, il viceré chiuse il traffico con i porti di quello stato e ordinò a tutti i Presidi delle province di mettere in quarantena tutti coloro che provenivano da Tolone, Fiandra e Ponente.[16]
Nel gennaio dell’anno successivo, allorché l’ambasciatore inglese tentò di stabilire trattative diplomatiche per una riapertura totale del commercio o limitata almeno a Gallipoli e Lecce, il Viceré fu irremovibile e rispose che i danni patiti da Napoli e dal Regno con la recente peste erano stati tali da non poter affatto rischiare una possibile ricaduta, dal momento che si era accertata la presenza della peste a Londra.[17]
Anche quando, verso la metà di aprile 1666, la peste aveva finito di mietere vittime sul territorio inglese (il bilancio fu di 68.000 morti) e il Collaterale fu dell’idea di sciogliere la Deputazione della Salute per le ottimistiche notizie che giungevano dalla costa francese, prima di compiere tale passo il Viceré volle avere la massima certezza chiedendo informazioni ai consoli di Livorno e di Genova nonché a don Nicolas Antonio, Agente di S.M. a Roma.[18]
Solo a maggio la Deputazione fu sciolta e dopo che il Reggente Galeota aveva riferito in Collaterale di aver saputo dal conte di Bayla di Genova che quella Repubblica aveva regolarmente ripreso le attività commerciali con Tolone e altre città della Provenza e di aver ricevuto un pubblico attestato della buona salute di quelle coste. Ma si attese ancora un mese prima di scrivere ai Presidi delle province di non dare più alcun impedimento al commercio con i Francesi.[19]
Verso la fine dell’anno un sospetto caso di peste a Livorno rimetteva in allarme il Collaterale e spingeva il Viceré a seguire la stessa politica del papa bandendo Livorno dai rapporti commerciali col Regno; ma era un falso allarme e ben presto il commercio poté essere ripreso regolarmente.[20]
[1] P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Napoli 1865, libro XXXVIII, pag. 189.
[2] G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Napoli 1972, pag. 42 –45 e P. Giannone, op. cit., cap VII, pag. 390.
[3] R. Colapietra, Vita pubblica e classi politiche del Viceregno napoletano (1656 – 1731). Roma, 1961.
[4] Arch.di Stato di Napoli, Not. Cons.Coll., vol. 61, 12 gennaio, 18 maggio e 6 luglio 1657 e vol. 62, 29 maggio 1658.
[5] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 62, 10 gennaio 1658.
[6] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 62, 7 giugno 1658.
[7] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 62, 17 e 26 giugno 1658.
[8] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 62, 9 agosto 1658.
[9] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61, 18 gennaio e 15 febbraio 1657.
[10] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61, 6 e 27 febbraio 1657.
[11] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61, 23 febbraio 1657.
[12] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61, , 9 e 27 aprile 1657.
[13] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61, 2 maggio 1657.
[14] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 63, 11 marzo e 2 maggio 1659
[15] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 66, 21 maggio 1663.
[16] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67, 12 agosto 1665.
[17] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67, 22 gennaio 1666.
[18] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67, 12 aprile 1666.
[19] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67, 27 maggio e 16 giugno 1666.
[20] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67, 11 ottobre 1666.
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