Pubblicato il 11/03/2010 07:07:54
Quando ero bambina soffrivo d’asma. Era terribile: all’improvviso sembrava che l’ossigeno non volesse più passare dalla bocca aperta ed ogni respiro era un sibilo. Avevo paura, specie quando arrivava la notte: pensavo che se avessi smesso di controllare la respirazione, che ritenevo fosse divenuta per me un atto volontario, sarei morta. Era a quel punto che arrivava mio padre. Stanco morto, provato dalle ore in fabbrica, mi prendeva la mano e mi prometteva che sarebbe rimasto lì a controllare: se ci fosse stato pericolo mi avrebbe svegliata. Poi, mi baciava e diceva che così la malattia se la sarebbe presa lui, almeno un pochino, quel tanto che bastava a darmi un po’ di fiato. Spesso gli dicevo di aprire la finestra perché mancava l’aria. Allora, si alzava, faceva finta di smanettare con la maniglia e, poi, tornava sorridente: “Ecco, ora è spalancata.” Lentamente, mi abbandonavo al suo amore, mi arrendevo perché capivo che era preoccupato e mi lasciavo andare. Poi, arrivò il menarca e si portò via l’asma. Dio, quanti anni sono passati da allora. Ora che mi avvicino al climaterio mi accorgo che, dopo avere vissuto tenendo tutto sotto controllo, pensando che se non mi fossi spesa sino all’ultima cellula per quelli che amavo o che mi amavano, se non avessi fatto sino alla fine tutto il mio dovere, se non mi fossi assunta tutte, ma proprio tutte, le mie responsabilità, avrei perso il controllo ed, insieme al controllo, l’anima. Sapete, in questo lungo breve viaggio, cosa mi è più mancato? Un uomo che con un bacio si fosse fatto carico di un pochino di questo peso enorme, che mi avesse teneramente ingannata dicendomi che la dannata finestra chiusa l’aveva aperta lui per me che non potevo farlo, inchiodata al letto della mia abnegazione. Un uomo che, invece di addormentarsi, fosse stato disposto, non dico a vegliarmi ma, almeno, a vegliare insieme a me. A voi, uomini della mia vita, dico: “Vi perdono, nel nome di mio padre, ma non vi amo più”.
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