Generalmente non c’erano le mosche, almeno in questa stagione.
Più tardi. Colazione appartata (dietro cespugli). Quanto al resto, si vedrà.
E la frutta…? C’erano molte more.
Muoversi.
Incrociato d’un tratto: stagno lucente. Specchiarsi. Dei che faccia che ho!
Temo di essere malato; credo di essere malato; evidentemente sono malato.
Poche ore fa, prima dell’approdo: vento scompagina.
Frangenti e fondo basso; qui si cade. Non ricordavo questa sponda a est.
In breve zuppo.
Freddo.
Io la malattia la conosco. Come malinconia. O nostalgia.
Succede ai vecchi, quando non c’è più tempo.. Fingono, allora, di dimenticare o peggio vanno dentro il ricordare.
Serve a tornare indietro. Illudersi di non essere ciò che sono per ritornare ciò che sono stati, dimenticando di non esserlo stati affatto. Le conseguenze sono gravissime: una serie di sciocchezze tipo chi, come, dove e quando vorresti essere. Fino a prova contraria.
Una vita da vecchi, dunque: scuotere il tempo e farne una tagliola dove resti avvinghiato. Se sei un ricordo la ricerca è finita.
Ragazzo mio, sei vecchio – dice allora la dea quando compare.
Ah, sei venuta… mi pareva!
Su, su… devi tornare a casa!
Guardarsi intorno. E dove sarebbe?
Come, non ti ricordi? Vieni, ti guido io.
La malattia è una cosa strana.
E allora vieni a stare da noi, mi dicono, che qui possiamo ancora ricordare questa discesa lunga: malattia.
Una ferita antica, uno squarcio dell’anima nel mondo che mentre ci stai male ti fa stare. Quando finisce muori.
Vivere con il mondo è una tristezza. Un impegno emotivo totalizzante che ti fa stare bene e male allo stesso tempo. Impegna tutte le tue risorse e anche qualcuna di più.
Una tristezza che ti fa stare bene, allora. Perché ti fa sentire vivo. Sei vivo mentre stai male; e anche qualcun altro.
E allora mi dicono vieni a stare da noi, che almeno facciamo finta. Ma stare dove, stare quando, che tutto è solamente un grande senza ed io non ho più tempo per il mio.
Che magari mi ritrovo in un occhio un raggio di luce che è partito da una galassia lontana tredici miliardi di anni fa. Adesso nel mio occhio: tredici miliardi e adesso. O di un gigante cui ho accecato la vista.
E magari è anche passato un raggio di una luce che si è portato via l’immagine che ero quando sono partito fino a un occhio estraneo che nemmeno se ne accorgerà tra qualche migliaio di anni, quando chissà dove sono. E nemmeno ci ho fatto caso.
E le stazioni intermedie, dove cambiano gli anni. Ma la carrozza è la stessa. Come adesso.
Come è adesso quell’istante in cui sono venuto a aspettarti sotto casa quarant’anni fa. L’universo è un ricordo.
Risalire uliveti. Questa sarebbe tutta roba mia?
Chi lo sa, chi lo sa…
Con sguardo torvo: certo che è mia!
Prima di darle fuoco. A Troia.
Mi ricordo un pittore (ci andavo travestito segretissimo. Certo, come cavallo!)
Atelier elegantissimo. Donnine, barattoli, pennelli. Tu eri lì. Mi stai sempre tra i piedi! (Vabbé, da Circe hai impedito che diventassi un porco).
Ti piaceva atteggiarti in pose osé. Lui eccitatissimo.
Avido, ti osservavo tra i peli delle cosce. Vergine? Manoncipossocredere!
E dài! Ma guarda cosa vai a pensare...
Salita impegnativa. Ansimo.
Sei sicura sia la strada giusta? Io qui avevo spianato… c’erano delle aiuole…
Eh, mio caro, mio caro…
Vento di mare, intanto.
Febbre: come se fosse sera.
Rallenta…. Non sto troppo bene.
La debolezza ti presenta il conto: viene la malattia. Viene frugando quel poco di pensiero che rimane. Lo condiziona mentre lo indirizza verso un unico scopo, una specie di illogica ossessione che conosci e trascuri: non ti viene la voglia di curare.
Pesa la dimensione di pesare e trasformi i pensieri in fantasie. “Magari non è niente” – ti sorprendi a inventare – che la vecchiaia inventa le sciocchezze tese ad alleggerirne la comparsa. In questo modo si insedia e ti trascina. Dove? Inutile parlarne.
Malato, allora, mi verrete a trovare in ospedale e, dimesso, mi direte: vieni a stare da noi. Da noi vieni a stare.
E allora mi vedrete sgusciare e, inevitabilmente, sono venuto qui, su questa terra stretta, dove non potete raggiungermi perché ho tolto le scale.
E ci passo le notti e sopra ci passano le stelle e sotto tutto quello che passa: Voi mi direte: scendi, vieni a stare da noi. Voi, più o meno, ricordi, in qualche modo.
Neutri per lo più, pieni di apparenze di cose che sembrano intenzioni senza averne intenzione.
Ed è inutile che da sotto gridiate: vieni a stare da noi. Lo direte fino a quando vi stancherete, laggiù, nello scorrimento, nell’assedio che vi rende impraticabili.
Voi, ricordi che non voglio ricordare, collusi con l’instabile del desiderio che vi muta in storie inaffidabili, fatti di inesistenza racchiusa nella brevità delle mie cellule, sempre più pallide e sempre meno irrorate, mentre mi affatico a distoglierle dall’ orribile del pensiero che le rappresenta. E ho finito le sigarette.
Guarda, tua moglie è cambiata. Anche la casa.
(Distante. Prendere appunti e poi dimenticare).
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