All’orizzonte di queste mie “Approssimazioni” (che fanno parte di una serie che ho esposto in una personale al “Françoise Calcagno Art Studio” di Venezia) c’è un’evidente traccia del procedimento duchampiano del ready made. Ma, diversamente dall’operazione duchampiana, qui l’oggetto prelevato direttamente dalla quotidianità è protagonista di una trasformazione: messo in posa, inscatolato (e dunque in qualche modo ritagliato, salvato, “protetto” dalla serialità) diventa altro da sé pur rimanendo se stesso. I contenitori sono perciò macchine moltiplicatrici di significato, “scatole alchemiche” dove avviene una metamorfosi basata essenzialmente sul contatto fisico, ma straniante, fra cosa e parola. Attraverso questo “corto circuito”, ciò che i linguisti chiamano “significante” e “significato” diventa un tutt’uno. Prende forma un ponte ideale per mezzo del quale tutto il peso della materia si trasferisce su un elemento “immateriale” (ma potentissimo) come la parola, dando così origine a forme di ibridazione, “poesie oggettuali”, dove il linguaggio poetico si fa cosa e la cosa si fa parola poetica. Un filo conduttore di queste opere potrebbe essere dunque una riflessione (ma aperta, problematica, approssimativa) sulla genesi oscura del senso e nello stesso tempo sulla valenza materiale, corporale, “naturale”, della scrittura, che perciò assume veste di graffio, gesto, azione… Per queste ragioni, accanto alle suggestioni duchampiane, all’orizzonte delle mie “poesie oggettuali” permane il celebre “indovinello veronese” del IX secolo, una delle più antiche testimonianze del volgare italiano, dove l’azione dello scrivere viene paragonata a quella di un contadino che col suo aratro simile a una penna, scava solchi nella terra arando i “prati bianchi” della pagina.
Alfonso Lentini
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Stanno le cose, ripulite con cura, opaco dissonante inventario. Stanno nel teatro nascosto, foderato da camera oscura. Nelle scatole magiche di Alfonso Lentini, nulla è astrazione. La meraviglia sta nel detrito, nel ciarpame da tandlmark surrealista, in cui ogni oggetto proietta un’ombra notturna. Il suo è un ritorno al divenire. Un’ansia d’opera acre, implacabile divora la scena, sulle note di un valzer zoppo. L’impresa proviene dai sogni derelitti, epica coazione a ripetere, con quel veleno nigro che zampilla dalle storie, e fa eco...
Francesca Brandes
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