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Lo schiaffo

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 08/06/2024 19:51:33

LO SCHIAFFO

Ero stata incaricata dal direttore di compiere un sopralluogo alla scuola elementare della frazione: il comune vendeva a privati l’edificio che da anni non era più adibito a struttura scolastica.
Il mio scopo era di evitare che il piccolo fondo librario, custodito negli interni, andasse al macero. Sapevo che nelle scaffalature erano conservati ancora dei classici per l’infanzia, risalenti a prima della Seconda Guerra Mondiale, e dei libri di lettura che negli anni Cinquanta avevano costituito un vero e proprio caso editoriale.
Da molto tempo non mettevo piede nella mia vecchia scuola e, quando varcai il cancello per immettermi nel piccolo cortile e alzai gli occhi per osservare la facciata, mi accorsi di trovarmi di fronte a un edificio incredibilmente minuscolo che da bambina, invece, mi sembrava enorme.
Il portone centrale era aperto, stavano svolgendo dei lavori di restauro, e la tentazione immediata fu quella di raggiungere l’aula a pianterreno, sulla destra, dove avevo frequentato la classe prima.
Anche quello spazio mi sembrò di modeste dimensioni: i banchi erano costituiti da tavolinetti singoli con annessa seggiolina e non più da quelle strutture biposto con i fori negli angoli per i calamai.
Quando il mio occhio cadde sulla cattedra, mi venne in mente mia zia.
Era stata la mia maestra in prima elementare.
Io provavo per lei un misto di timore reverenziale e di ammirazione. Fu lei ad avviarmi, da piccolissima, alle prime letture. Una volta mi raccontò della visita di Mussolini alla piccola frazione; un evento eccezionale per il quale le rappresentanti del Fascio ordinarono alle cuoche di preparare cappelletti e pollo arrosto; ma il Duce, fedele alla sua fama di consumatore abituale di pasti veloci, preferì una scatola di sardine sott’olio.
Mia zia maestra, un giorno a scuola, durante l’ora di aritmetica, mi chiese di un calcolo che probabilmente non sapevo risolvere e mi domandò che cosa fosse la “dozzina”.
Io risposi candidamente:
-Non lo so.
Lei venne presa da un attacco d’ira: forse la irritava che sua nipote non sapesse cosa fosse la dozzina, oppure provava una sorta di sentimento sadico verso la bambina intimidita che le stava davanti.
Mi diede uno schiaffo e pose la domanda a una compagna che, invece, sapeva rispondere.
Quel ceffone continuò per anni a bruciarmi il viso. Non mi aspettavo un gesto simile da una persona che ammiravo e che, forse, a volte avrei desiderato sostituire a mia madre. Notai, in seguito, che per lei quel gesto non costituiva problema: era il naturale trattamento che una maestra doveva riservare a un’alunna che non sapeva ciò che avrebbe dovuto.
Nel corso della mia visita alla scuola dismessa, trovai, proprio nell’armadietto della prima classe, i primi libri interessanti a partire da “Pagine gaie” di Genoveffa Liverani.
Proseguendo, reperii altri testi degni di nota e anche delle cartine storiche arrotolate e chiuse in uno sgabuzzino.
Impilai il materiale nell’aula, che ai tempi veniva utilizzata per l’ora di ginnastica, con l’intenzione di incaricare qualcuno per il ritiro. Pensavo con tristezza che contribuivo, seppure indirettamente, alla chiusura di una di quelle bibliotechine rurali promosse da Paola Lombroso.
Quando rincontrai il direttore, riferii.
Con Ferruccio avevo un buon rapporto. Sembrava molto disponibile ad accogliere le mie richieste, e anche ad ascoltare questioni di tipo personale. Lo consideravo una persona assai dotata, sensibile e con un’intelligenza superiore alla norma. Nutrivo per lui un’ammirazione, oserei dire, sconfinata anche se frammista a un po’ di timore.
Quello stesso giorno Ferruccio mi mostrò il progetto di una struttura moderna, destinata ad accogliere le attività sportive, che sarebbe sorta accanto alla mia vecchia Scuola Elementare in seguito all’abbattimento di alcuni edifici.
Naturalmente ne fui contrariata. Gli dissi che le nuove costruzioni erano orribili, che preferivo di gran lunga le vecchie improntate al gusto per i particolari e per i decori. Che era un peccato che quella scuola, depositaria di memorie personali e storiche, venisse sovrastata dalle forme mastodontiche e antiestetiche di un palazzetto sportivo.
Lui mi rispose che il vecchio non aveva più ragione d’esistere, che il nuovo doveva seguire il proprio corso, che era impensabile tornare all’epoca umbertina, e cose del genere. Concludemmo la discussione per strada.
Tornata a casa, però, un tarlo continuava a rodermi, tanto che decisi di inviare a Ferruccio un messaggio per far valere le mie idee. Chissà perché mi ero incaponita a ricercare conferme. Chissà perché desideravo che mi desse ragione.
Mi espressi con tono quasi perentorio, forse non me ne resi neppure conto.
Lui se ne uscì con un tranciante: “Sparisci. Non disturbare”.
Che era la versione in parole del ceffone della zia.
Riprovai la stessa sensazione di incredulità e di dolore sordo.
Il mio scudo era rovinato a terra e il mio capo aveva cominciato a girare come quello di un manichino colpito da una lancia durante un torneo.
Soltanto col tempo ritrovai stabilità. Esattamente come era già successo.
Come era successo tanti anni prima, alla scuola elementare.


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