Pubblicato il 02/06/2024 10:54:06
L’IPPOCASTANO
Un’infanzia triste. E anche l’adolescenza. Con l’impronta del padre rigido e intimidente. Lui, Umberto, era venuto su riservato e silenzioso all’ombra del genitore. Preside. Diverso dalla sorella Rosa, un’esplosione di esuberanza, le discoteche in testa. Con fare schivo, teneva il capo chino sul manubrio della bicicletta durante le frequenti escursioni lungo i dedali della Bassa. Ghiaino e strade sterrate, fossi zeppi di canne, odore di acqua putrida: opporli al chiuso dell’ufficio era stato un privilegio, mentre ora ne poteva godere quotidianamente con la tranquillità della pensione. Quando pedalava, lento o veloce, le ruote giravano sui ricordi: il fiore in bocca, di Rosa ancora giovane, aveva reso nero il sole fuori e dentro casa per interminabili anni. Le stanze, dopo, erano sempre silenziose e a lui mancava la radio accesa con la musica dance, anche se al Gabbiano non andava mai. La madre, invece, era passata a miglior vita nel giro di una notte di gennaio, sbattendo la testa con una scivolata sul porfido ghiacciato del vialetto. Lui era rimasto a vivere col padre. Dentro la casa austera per la quale erano state fatte ben poche opere di restauro. Quando era subentrato l’Alzheimer, si era rivolto a Florentina. Giovane, bionda, esuberante, con un magnifico senso pratico. Umberto le aveva dato le chiavi di casa e carta bianca. Lustrava quel corpo inerme passando le spugnate ogni giorno sulla pelle morta, comprese le piante dei piedi, e gli spostava, premurosa, i cuscini sotto il capo: Umberto, quando guardava la vestale al servizio del tempio, ritrovava il suo respiro libero dall’ansia. Erano stati anni di tormento, soprattutto per le urla che trapassavano le notti e il corpo che macerava nelle piaghe. Finché, dopo le giornate di piombo, si era rivista la chiarezza del mattino. Lui aveva chiesto a Florentina di restare. L’abitazione era spaziosa, c’era un magnifico ippocastano che, passato il cancello, segnava l’inizio del viale. Florentina aveva fatto un sorriso grande. Aveva taciuto e abbassato le palpebre sulle iridi chiare in un'espressione di dolcezza. A Chisinau, per festeggiare con i parenti, c’erano andati in macchina e non col pullman dei migranti. All’inizio sembrava che tutto le piacesse, i rigogli dell’ippocastano davano certezze. Ma poi era diventata irrequieta: chiedeva di viaggiare, di apportare migliorie alla casa, di fare spese. Umberto non capiva gli sprechi, le smanie, le richieste. A lui bastava prendere la bicicletta, percorrere le strade sterrate, guardare le partite e assistere alle sagre. Al massimo un po’ di riviera in estate. Lei si sentiva oscura, abbandonata e sola nella realtà ristretta alle chiacchiere e alle tradizioni del paese estraneo. Stava ore al telefono con le amiche mentre lui era fuori quasi tutto il giorno. Infine, aveva deciso di ritornare a Chisinau. “Vado qualche mese”. Non si era più rivista.
Lui aveva chinato il capo sul manubrio e ripreso i percorsi evocativi cercando autonomia. Al supermercato poteva incontrare una comunità. -Era il figlio del preside? - una voce dall’inflessione contaminata, un giorno, gli fece girare il capo. -Lo sono ancora- rispose Umberto- con un sorriso a metà. Lei arrossì per la gaffe. Si presentò: una coetanea. Anziana, mora, impacciata. Lo aveva fotografato nella memoria della scuola media. Una mattina di tanti anni addietro era entrato nella sua classe. Viola viveva altrove, era ritornata per la madre allettata nella casa paterna. -Ci siamo incontrati una sola volta, più di mezzo secolo fa. Umberto mostrò l’arcata superiore dei denti, scoprendo l’ironia innestata sulla tristezza. Di seguito, gli incontri avvenivano sempre per caso. Umberto provava il gusto della malinconia rassegnata e cominciò a credere ancora nelle sorprese dell’ippocastano.
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