Pubblicato il 03/04/2012 12:00:00
Vi sono autori che esercitano un sottile, lontano, fascino sui lettori; come divi cinematografici sono noti, acclamati e menzionati. A differenza di un divo cinematografico, la cui immagine appare un po’ dovunque, o di un noto cantante, la cui voce può capitare di sentire un po’ dovunque, senza premeditazione, uno scrittore necessita di un ben preciso ragionamento, viene il momento per un lettore medio di dirsi, ora leggo Carver, magari approfitta dei numerosi sconti nelle librerie e si munisce di una copia di un libro dello scrittore-icona. La scelta non è facile, visti i roboanti strilli sulle manichette e gli entusiastici toni nelle recensioni, nel mio caso la scelta è caduta su “Cattedrale”, considerato uno dei massimi esempi della scrittura dell’autore americano, e non nasconderò che il titolo ha sottilmente vellicato in me quel mai sopito desiderio di trovare in qualunque pagina echi o e reminiscenze di colui che veramente edificò una cattedrale con foglio e penna dal letto della sua stanzetta. Ora, in questa raccolta di racconti di echi di cui poc’anzi detto non ne serba traccia, i personaggi si muovono in quella sorta di America minore, che sono i villaggi nel “middle of nowhere” statunitense che sembrano anni luce distanti dagli scintillii della costa est o dalla rutilante vitalità californiana. Qui incontriamo operai, spazzacamini, professori di liceo, alle prese con vite scialbe e costellate di fallimenti. L’atmosfera aleggiante tra le guglie di questa cattedrale è grigiastra e pessimista, gli uomini sono spesso abbandonati – o ignorati - dalle mogli, le quali spesso fuggono col primo venuto o sopportano a fatica la presenza in casa di un uomo dedito alla bottiglia o aggrovigliato nelle proprie delusioni al punto da non alzarsi dal sofà di casa. L’alcool scorre a fiumi, anestetico di vite amare, inconcluse. È una America del disincanto, dei cocci esistenziali, quella raccontata da Carver, il quale racconta in parte sé stesso quando parla di matrimoni alla deriva, di crisi dovute all’alcool e interminabili bevute che distruggono tutto ciò che circonda una esistenza. La raccolta comprende dodici racconti i quali pur conservando una matrice comune, riconoscibile, sono tutti ben differenziati fra loro, le ambientazioni cambiano, le trame sono sempre originali e narrate da punti di vista sempre nuovi, anche il linguaggio si differenzia da un racconto all’altro, esplorando vari registri: si va da quello tipo vecchio west con espressioni quali “che io possa essere dannato se non l’ho visto con questi occhi”. Altri sembrano raccolti dalla viva voce dei protagonisti su di un nastro registrato con quelle ripetizioni tipiche di chi ricorda e si sforza di fare un discorso lineare; sino a giungere ad accenti più sofisticati, quasi esistenzialisti, come nel racconto “Il treno” particolarissimo, che si staglia netto sugli altri rappresentando una variazione importante di ambiente e di struttura, circonfuso di una atmosfera grigiastra pare per metà sognato e per metà vissuto. Per concludere il racconto che dà il titolo alla raccolta in cui Carver apre all’ottimismo, e il protagonista dapprima restio ad accettare l’altro – l’intruso – alla fine si lascia andare permettendo alla fantasia e alla comunicazione di erompere nel suo piccolo chiuso mondo. I racconti sono formalmente perfetti, molto precisi, ben costruiti, quasi cesellati, com’è lecito aspettarsi da quello che è considerato uno dei massimi autori americani, la raccolta si legge con grande piacere, ci si appassiona e si ammira l’inventiva dell’autore, coadiuvato per i lettori nostrani dall’ottima traduzione di Riccardo Duranti. Se posso concludere con una mia impressione che mi creerà molti nemici, durante la lettura accanto all’ammirazione verso l’autore come già detto, ho avuto talvolta una sensazione di gelo, spesso la bellezza di un racconto non riusciva ad emozionarmi, come un lavoro svolto perfettamente ma con poca anima. Sono sensazioni difficili da spiegare, e forse infondate per una raccolta di racconti che si legge con leggerezza e che con leggerezza si dipana lungo le pagine con un effetto paradigmatico su quel che significa scrivere un racconto.
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