Mazur non temeva i leoni.
Quindi se cade il vento, non si sentono odori (spiegava).
In disparte alcuni Berberi lanciavano dadi fatti con ossa di cammello. Bevono, mentre la sera ha già distrutto il giorno.
Intanto: si montava una tenda.
Mi sono ricordato di te quando ho ingoiato l’ultimo boccone.
Era freddo a Parigi e la nebbia lasciava intravedere tutto il tempo lasciato.
Sono cose che vanno a scomparire, come i bottoni della mia camicia quando cadono e nessuno li raccoglie. O la sabbia.
D’estate passavamo la notte al lungosenna, ma non posso giurare che sia vero.
Qui la notte è distanza. Stelle, ma sembra di guardare un giuramento fatto senz’alba al tempo di dormire.
Il fuoco è un guazzabuglio di visioni. Cerca, come i pensieri quando non puoi fermarli. E distruggerli.
I filosofi commettono un errore capitale: pensano il tempo come una linea retta. Esso è invece un abisso, disperso sotto forma di spirale. Tutto scende e ritorna; sprofonda mentre sale. Per questo non riesco a abbandonarmi.
Stelle, come lamine fredde.
A Parigi sembrava primavera, quando avevi una tela. I colori bisognava inventarli; un’esigenza senza condizione.
All’Orsay c’erano ferrovie: dipingere è partire.
Laggiù, da qualche parte nel buio, dovrebbe esserci il sonno.
Questa potrebbe essere una spedizione, se avessimo una meta.
Sono molte le cose che bisognerebbe avere: un cappello, un divano, un sentiero per non sperdersi troppo quando si cerca di rimanere vivi.
E l’abbondanza, la miseria, l’astro, una coscienza senza adattamento. Un fiume, anche: scorrere, quando occorre restare.
Più tardi, dopo molte boccate di vaniglia e illusioni di lamponi freschi: quelli lanciano dadi.
C’era la notte, fuori.
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