Okèanos
Io rabbrividivo in quelle notti.
Erano notti strane, così densamente cariche di stelle da sentirmene tramortita.
Le ho sempre ritagliate sotto tutti i cieli che abbiamo visto.
Che abbiamo visto io e mio padre sul nostro ”Okèanos”.
Viaggiavamo d’estate, l’unico momento in cui lui era davvero presente a me.
Lontano da quelle sue donne mascherate, una più appariscente dell’altra, una più invadente dell’altra. Le sue giovani amanti che detestavo con tutta la cordialità del mio essere femmina.
Ho sempre pensato che anche lui avesse bisogno ogni tanto di un po’ di solitudine e quel mese di agosto era per me l’unico momento in cui potessi dire di avere accanto una famiglia.
Io e lui.
Una famiglia. Suonerebbe come una magnifica parola. Una specie di integrazione tra individui vincolati da legami più o meno forti. Ma di forte, quelle estati, era solo l’emozione di poterlo chiamare... papà…
E’ una parola che anche ora non sussurro mai. La penso e basta.
Mi commuovo ma è solo tristezza al ricordo della sua perfetta vulnerabilità di uomo imperfetto. Alla sua caparbia incapacità di sentirsi padre con la puntuale presunzione manageriale di poter capire un’adolescente di 14 anni con tutti i suoi casini.
La ricchezza non contava niente per me, ma per lui era, ed è sempre stata, un simbolo di potere di autorità, di prestigio. Lui comprava tutto. Penso che fosse davvero bravo in questo, era bravo a comprare la gente. Ma soprattutto era bravo a governare la barca.
L’”Okèanos” era una bella imbarcazione di 12 metri, di colore grigio-verde. Mio padre, adorava il mare e mi trasmise quell’imprescindibile amore per tutto ciò che è aperto, azzurro, immenso e tempestoso. E il volo dei gabbiani, la libertà dei delfini, la sottigliezza del calore del sole, l’irrequietezza del vento, la sua intima vibrazione. Presi ad amare il maestrale, il gran maestro dei venti, quel regale e tempestoso “accadere” che rendeva ogni cosa minima e superflua.
Allora, io mi innamoravo di tutto.
E mi lasciavo innamorare di tutte le cose quiete e inquiete della natura. Erano le mie ombre casalinghe, le mie pareti, le mie vie di fuga.
E in quelle estati in cui rabbrividivo al buio… in quelle estati, io sentivo di non poter stare rinchiusa nella mia vita dorata, fatta di tutto e fatta di niente.
E pensavo a mia madre. Ferma sulla spiaggia, i suoi lunghi capelli avviluppati alle mie piccole mani avvinghiate al suo odore di donna, al calore del suo seno.
Era l’unico ricordo che avessi. Potevo avere tre anni, non so. Ma io la ricordavo solo così.
Una goccia di sole, di caldo, di forte. Protezione, prima del grande freddo.
Al buio di quelle splendide notti stellate, sdraiata sul ponte dell’Okèanos, con un vecchio maglione, dei jeans scoloriti e un libro di astronomia passavo l’intera notte a guardare le stelle. E solo lo sciabordìo dell’acqua mi faceva compagnia perché mio padre se ne stava sempre sotto a leggere le sue fredde statistiche finanziarie.
Guardavo le stelle.
Le sentivo pulsare di vita. Le guardavo come avessi davanti la “mia” vita.
E nell’ombra, sotto un cielo che sembrava dipinto, sfogliavo quel libro per cercare il nome di quei diamanti indistinti sparsi nel cosmo. Gli antichi avevano affidato all’eternità tutti i loro nomi, le leggende, gli amori e i lutti di dèi ed eroine, come fossero davvero persone, anime, cuori.
Nell’ombra sfogliavo i miei occhi ritagliando stella per stella, sussurrando costellazione per costellazione. Quasi una cantilena…
Pegasus …Camelopardalis …Cygnus…Vega…Betelgeus …Andromeda…
Così, nel chiarore lunare che bagnava d’argento le onde, sentivo di essere qualcosa, qualcuno.
Che pulsavo di vita, di energia, di armonia. Che nonostante la solitudine, io esistevo ed ero piena d’amore nonostante ne avessi mai goduto.
Ma ero ancora implosa e il desiderio di esternare le mie pulsioni emotive e affettive era così compresso e represso da farmi rabbrividire.
Quella massa era tuttavia lì, dentro di me. Sarebbe germogliata molto tempo dopo.
- cretina è solo freddo, quando la marea si alza cambiano anche i venti – mi dicevo
L’anno dopo mio padre morì d’infarto.
E io …?
E io non avrei mai più avuto 14 anni.
E io non avrei più guardato le stelle senza riconoscerne le sembianze, costellazione per costellazione. Ormai le avevo scoperte già tutte.
E non avrei mai più amato così intensamente tutto quell’immenso che ho visto e magari solo immaginato, che ho imparato, sfogliandomi nel buio di quelle brevi notti d’estate.
Non avrei mai più amato così intensamente e così dolorosamente tutto quell’azzurro mare.
(racconto immaginario)
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