[ Recensione di Saverio Bafaro ]
La casa di Roberto è in pieno centro, a Palermo, alle spalle del mercato della Vuccirìa. Salgo 4 piani di scalini alti, quelli di una volta e con un po’ di fiatone entro nel suo appartamento. Mi accoglie un abbraccio fatto di carte, intere pareti rivestite dai volumi, do un’occhiata e accenno più di un sorriso, i libri sono salvi!
Keats, Stevenson, Haskell, Hardy, Artaud, Apollinaire, Larkin, Khalvati, Hartnett sono gli autori di elezione confluiti in Gabbie per nuvole (Empirìa, pagine 103), ultimo testo poetico di Deidier. Non si tratta di un quaderno di traduzioni, niente affatto, non c’è traccia dei testi originali, gli autori vengono riportati tra parentesi come a indicare solo la loro presenza nel cuore del poeta. L’organizzazione del testo va per temi e segue, sull’onda del bilancio e della riflessione retrospettiva, tracciati autobiografici: la morte; la letteratura; la “domus”; il viaggio umano fatto della dinamica partenza-ritorno, dispersione-ritrovamento. Non c’è, poi, solo il tessuto lirico a suggerire possibili piste interpretative, ma accorrono anche le note critiche in introduzione e in chiusura, piccoli colloqui che contribuiscono ad una riflessione meta-testuale sull’opera. Tutto questo con spirito diverso da quanto ebbero a fare i poeti-traduttori quali Fortini e Sereni e solo più vicino agli intenti del Bertolucci delle Imitazioni.
Come, dunque, adattare i testi in una lingua diversa, non rendere al lettore una semplice operazione tecnica? La risposta consiste nel ri-vivere il testo a lungo (a volte non basta una vita), un amante appassionato e fedele farà germogliare la sua voce modulata ma distintasi da quella iniziale, ri-scriverà il testo - operazione pregna di coraggio - come dimenticandosene del tutto, per quanto nel suo viaggio possa averne visitato le strutture interne.
Roberto Deidier, attraverso un meccanismo di “impersonificazione”, aggira la facile tentazione del mero tradurre e, invece, porta a spasso per luoghi narrativi compositi gli autori della sua formazione, inscrivendoli non solo in un gioco intellettuale, ma nel vivo del suo stesso corpo, scambiando con quelli le storie, i paralleli, le corrispondenze. Incontra a metà strada - che è poi la scrittura stessa – degli alter ego che lo accolgono e respingono al contempo, arricchiscono e deprivano con simili effetti in preda all’estraniamento anche per chi legge.
Qual è, dunque, l’autore? L’autore è il frutto di una relazione: Keats-Deidier, Auden-Deidier e così via, ma in fondo, al di fuori di una logica poco produttiva dell’attribuzione, qualcosa che supera questa relazione stessa, lasciando parlare la lingua unitaria dell’assenza, abile nell’affrontare registri diversi con un stile omogeneo che si attualizza in diario, un diario aperto a coloro che vogliono entrarvi.
Come leggiamo in “L’amore e il manuale” (pagina 59): «Sorpresi lo lessero i lettori, e presto ⁄ il libro mosso divenne solo un testo». E’ la vita autonoma dell’opera, la sua umile ma sorprendente vittoria.