Pubblicato il 09/02/2010 16:37:26
Avevamo già tutto previsto. Piazza S. Anna in quel giorno di giugno era luminosa. I caseggiati a due piani che l’attorniavano, sfoggiavano balconate fiorite di gerani penduli che facevano le inferriate simili a coperte colorate, le stesse esposte in occasione del passaggio della Santa. Mettevano di buon umore. Eravamo tre quella mattina, i soliti della compagnia, quelli che a vederli, si prestava attenzione ché non si sa mai quello che possono provocare. Sasà ero io, magro come un palo: mamma Carmela si meravigliava sempre ogni volta che notava il rapporto inverso tra la massiccia quantità di cibo che ero capace di ingoiare e la poca ciccia che mettevo attorno alle ossa, tanto da farle dire: -Ma dove cavolo lo metti? È possibile che diventi tutto cacca? – Poi c’era Tonino, detto “molla-molla”, per delle sue doti acrobatiche nel fare capriole che davano l’idea di un elastico. Aveva un viso bello, tondo e rosso. Sembrava una pesca matura; l’altro era Bruno, il più anziano della compagnia. Con ben dodici anni sul groppone. Era basso e tarchiato. Il pettorale ben marcato incuteva rispetto. Il viso era abbastanza segnato dal naso largo a zeppola, come privato di cartilagine e i due occhi rotondi e neri gli davano un’aria cattiva. Non era solo un’aria, perché Bruno era cattivo per davvero, il solo tra noi capace di scagliare un cazzotto sul naso dell’avversario e non fermarsi alla vista del sangue. Era da un po’ di tempo, che si pensava di tirare un brutto scherzo a Vincenzo detto “Cenzone” per via che faceva il sacrestano e quindi aveva a che fare con l’incenso. L’avevamo seguito varie volte, carponi e scalzi, mentre saliva su per la buia scala a chiocciola che portava su, dalla sala dell’associazione cattolica fino al piano ove c’erano tutte le impalcature per l’accesso all’orologio del campanile, e poi, attraverso una porticina, sul tetto della chiesa che si raggiungeva col cuore scoppiettante per l’affanno. Aperta la porta, ci si tuffava in un mare di luce che naufragava su di una superficie concava. Questa appariva nera come la notte, per via della pece di cui era ricoperta. Noi ci fermavamo alla porticina. Spiavamo “Cenzone” spingendo leggermente l’uscio fino a creare una fessura. Era un uomo di mezza età, dai lineamenti segnati da profonde rughe, come i tegolati dei presepi. Su questi poggiava un naso uguale ad una di quelle pipe di creta rovesciate. Pipa e tegolato apparivano fatti l’uno per l’altro, tanto naturalmente bene, s’integravano. Cenzone, in quei frangenti, era tutto preso, con un gessetto, a segnare dei numeri sotto alcune buche nelle pareti che limitavano il terrazzo; si soffermava sulle altre già precedentemente segnate, per controllarne il contenuto. Prima che finisse il suo giro d’annotazioni e controlli, noi scendevamo, di corsa e scalzi, la buia scala a chiocciola senza rumore. Il più delle volte, dopo breve tempo, già dimentichi, ci dannavamo l’anima a combattere una spigolosa partita di pallone con altre canaglie nostri coetanei, divisi in due squadre sul selciato di piazza S. Anna. Erano partite tirate, vere e proprie battaglie, che segnavano gli stinchi ed i visi, e finivano di solito con botte da orbi fra i contendenti che non trovavano accordo sulla validità di una rete. Come già detto in precedenza, avevamo tutto previsto. Nelle nostre spiate periodiche avevamo capito che Cenzone sul campanile seguiva le covate degli uccelletti che avevano nidificato nelle numerose buche. Aveva tutto annotato: data di deposizione delle uova, quella di presumibile schiusa e di conveniente prelievo. In una nostra spedizione preventiva, avevamo trascritto il giorno più utile per effettuare la nostra operazione con maggiore profitto. Cadeva quel martedì d’inizio giugno. Quella mattina, io assieme a Bruno e Tonino, percorrevamo via Carlo Alberto affiancati, con le mani affondate nelle tasche bucate dei nostri calzoni a quadroni, alla zuava. Avevamo un’aria baldanzosa ed arrogante e ci guardavamo a vicenda, ciascuno di noi, a spiare gli occhi degli altri due per trovare una traccia delle ambasce che ci prendevano in prossimità dell’impresa. Cenzone, era la nostra bestia nera. Era quello che in chiesa ci allungava le orecchie con improvvisi balzi alle spalle per punirci di qualche bisbiglio troppo insistito. Al cinema Ideal poi, si poneva sotto il grande schermo con una lunga canna. Aspettava paziente il momento opportuno. Questo, si presentava quando finalmente interveniva la cavalleria: la tromba ripeteva a perdifiato la carica mentre gli zoccoli dei cavalli scavavano la prateria sollevando un nebbione polveroso. I coloni che stavano per soccombere, erano, finalmente, salvati dai cavalieri in divisa azzurra, in plastica tensione sulle cavalcature, con la sciabola sguainata, a continuare il braccio allungato in avanti. I pellirosse, nemici e feroci, erano costretti alla fuga, mentre noi, in piedi, gridavamo il nostro entusiasmo a perdifiato, sedati a stento dai colpi di canna che Cenzone distribuiva sul capo, in modo equo. Quando arrivammo in piazza S. Anna, il sole era ormai alto. Sotto gli alberi, quella domenica, sedevano quasi tutti i notabili del paese; chi sorbiva un gelato, chi invece era impegnato a leggere le notizie dal quotidiano comprato alla tabaccheria vicina. Si poteva trovare di tutto in quel negozio, dal sale da cucina ai francobolli, dai bottoni ai giornali. Per noi ragazzi era un negozio familiare, perché donna Papela, la proprietaria, era solita aggiungere una “zarra” ogni qualvolta uno di noi vi si recava per fare una commissione. Ce n’andavamo succhiando la caramellina con ingordigia, non senz’aver rivolto a donna Papela una sbirciata con occhio innamorato. Donna Papela se le beveva quelle occhiatacce e le provocava, piegandosi in avanti ad offrire il suo grosso seno sodo che sembrava voler spaccare tutte le imbrigliature sotto le stilettate di quegli sguardi. Il donnone alimentava tutti i nostri sogni erotici e solitari. Quante volte ho sognato donna Papela e con che trasporto! Quando giungemmo davanti alla chiesa la messa era appena terminata. Cenzone aveva aperto i due grossi portali: in tal modo, i fedeli potevano uscire senza accalcarsi troppo. Questi si riversarono fuori lentamente, come un rigagnolo, andando a defluire in numerosi rivoli tutt’attorno alla grande piazza fino alle due stradine che scendevano ai lati della chiesa. Cenzone, usciti i fedeli, rinchiuse i portali lasciando aperto il solo piccolo portoncino disegnato in uno d’essi, e, girata la stradina all’angolo, se n’andò per i fatti suoi. Noi tre ci sbirciammo a vicenda, senza parlarci, e, dopo un cenno d’intesa, scivolammo in chiesa. Tutti e tre accennammo una genuflessione ed un veloce segno della croce alla vista del grande crocefisso che si trovava di fianco alla porticina d’ingresso dell’associazione cattolica, e, senza starci a pensare troppo su, vi entrammo. Era un lungo salone rettangolare: il solo lato lungo, a sinistra, era interrotto, all’inizio, da una rientranza che realizzava un rettangolo, aperto sul lato lungo, abbastanza grande perché all’occorrenza vi s’incastonasse un bigliardino. Entrando in questa rientranza, a sinistra, c’era una porticina che immetteva nella scala a chiocciola. Questa portava al campanile. La scalinata era debolmente illuminata da una finestrella posta sopra la porticina che era difesa da un’inferriata a croce. Al centro del salone c’era il tavolo da ping-pong sopra il quale Cenzone era solito mettere una sedia: gli serviva per salirvi ed arrivare così a prendere la fune delle campane quando occorreva farle suonare. La porta era chiusa per mezzo di un catenaccio, quella mattina. La cosa non era abituale perché fino a quel giorno era sempre rimasta priva di serratura. Pensammo a Cenzone: doveva aver sospettato qualcosa, ecco perché aveva preso quella precauzione, tuttavia non ce ne demmo molto pensiero. Il catenaccio la bloccava grazie a due anelli metallici ricavati da una coppia di viti ad occhiello, poste, la prima, sul portale, la seconda, a breve distanza, in corrispondenza, sulla stessa porta. Ce ne liberammo grazie ad una stecca metallica: con questa, Cenzone era solito spegnere le candele non raggiungibili con il solo braccio. Entrammo. La scala saliva a spirale stretta e in penombra, per la poca luce proveniente dalla piccola finestra sulla porta d’ingresso. Ci avviammo l’uno dietro l’altro con il cuore pesante come un macigno per l’inconfessato timore. Giunti che fummo al piano dell’orologio, Bruno rivolgendosi a Tonino disse:- Tonì, fermati qui e ascolta se arriva qualcuno; così potrai avvertirci- Tonino rispose con un cenno della testa, ed andò a sistemarsi pancia a terra sul piano dell’orologio con il mento sul bordo della buca da dove passavano le corde delle campane. In tal modo, poteva controllare tutto quanto avveniva nella sala sottostante. Noi due proseguimmo agili, verso il piano superiore. Non eravamo ancora arrivati a destino, che un grido soffocato di Tonino ci richiamò indietro. - Cenzò, Cenzò, arriva Cenzò -, sussurrava sottovoce Tonino, continuando fino a quando non ci vide nei paraggi. - All’orologio! - impose Tonino, - lì non potrà né seguirci né vederci. - Il luogo era, infatti, nell’oscurità più profonda e poteva essere raggiunto soltanto da monelli agili come gatti, certamente non da Cenzone che era un uomo tozzo, pesante e non più giovane d’età. Come animali braccati dal predatore, ci arrampicammo veloci lungo le travi metalliche che formavano il trapezio pensile al quale era agganciato l’orologio della chiesa. In cima, ognuno di noi si abbracciò ad una trave cercando di confondersi col metallo. Sentimmo Cenzone che saliva le scale, per il suo passo pesante, per le calzature ferrate e per la sua stazza. Quando ci passò davanti, avvertimmo il soffio stridulo del suo respiro che ricordava i vecchi mantici. Proseguì verso il piano superiore. La salita s’era fatta più lenta, talvolta si arrestava, per riprendere fiato e per stare in ascolto. Riprendeva dopo poco, borbottando vituperi e minacce d’ogni sorta. Io, restavo in silenzio, come i miei compagni, attaccato alla trave, e, col pensiero invocavo l’intervento divino a salvarmi. Ero pronto persino a rinunciare a spiare la Giulia dal buco della serratura del cesso nel cortile. Certo, era una grossa rinuncia, perché la Giulia era una bella ragazzona rotonda sui tredici anni che quando entrava nel bagno anziché fare i suoi bisogni stava a guardarsi le sue cosce ed il suo seno e le denudava e si muoveva tutta, come se stesse recitando la parte della “sciantosa”. La paura in quel momento non mi faceva sentire troppo importante il sacrificio. Cenzone, intanto, non avendo trovato traccia di noi al piano superiore, era disceso, e, bestemmiando, si era avventurato minaccioso nell’oscurità del nostro rifugio. - Lo so, diceva, figli di una cagna stuprata, che siete qui; piangerete o malnati, frutto del peccato di un padre incestuoso. Maledetti! - Si fermava di tanto in tanto ad ascoltare l’eco dell’ultimo vituperio o per una crisi di tosse catarrosa. Io restavo fermo, cessavo persino di respirare. Sentivo il mio cuore battere come un tamburo e provavo meraviglia che Cenzone non l’avvertisse. Costui intanto, dopo il lungo sbraitare, resosi conto che era impossibile prenderci, e che non era pensabile una nostra volontaria consegna, rifece la strada da cui era venuto. Noi, restammo a lungo nascosti per prudenza. Fu Bruno il primo che scese a spiare il da farsi. Resosi conto che effettivamente Cenzone era andato via, chiamò noi due rassicurandoci. Al richiamo di Bruno, mi sentii rinascere, e così, assieme a Tonino, scendemmo per raggiungere l’amico. Non eravamo ancora nei pressi, che sentimmo: - porca la miseria, il panzone ha chiuso la porta; e adesso? - Facemmo gli ultimi gradini di corsa. Alla porta, ci alternammo a dare spallate. Dava l’impressione d’essere solida come un muro di cemento. Finalmente ci convincemmo che, in quel modo, non avremmo risolto il problema. Risalii alcuni gradini giungendo alla finestrella che guardava da sopra alla porticina. Lo spettacolo che vidi mi prostrò completamente. Non dava alcuna speranza. Quel maledetto aveva incastrato il bigliardino tra la porticina ed il muro di fronte. Neppure Sansone avrebbe potuto sfondare una porta così fortificata. Scuro in volto, riferii la cosa ai miei compari che corsero anch’essi alla finestra per verificare. Se ne ritirarono sbiancati come cadaveri. Per la verità rifacemmo l’itinerario, porta-finestra, più volte, come topi in gabbia, impazziti. Tonino, si ricordò d’essere un bimbo ed incominciò a frignare, subito zittito da uno scapaccione di Bruno. Quest’ultimo era divenuto serio in viso, come di una persona preoccupata ma non ancora disperata. Si poteva notare il suo sforzo cerebrale dalle rughe che si erano disegnate sulla sua fronte e dallo sguardo accigliato. - Andiamo sopra, disse, forse c’è ancora una speranza.- Si avviò salendo gli scalini di corsa, come di una persona che avesse fretta di verificare una sua congettura. Noi lo seguimmo per inerzia, senza alcuna speranza. Al piano superiore, notammo Bruno fermo in prossimità della buca da dove passavano le corde della campana. - Salvatò, disse, è la tua occasione, sei il più magro, il solo che può passare attraverso il buco. Noi bloccheremo il battaglio contro il bronzo per evitare che la campana suoni, tu, scivolerai aggrappandoti alla corda attraverso il buco. - Avevo una paura formidabile e le gambe tremavano. Mi rendevo conto, tuttavia, che non potevo perdere la faccia nei confronti dei miei amici; infine, non sembrava esserci diverso modo per venirne fuori. Rassegnato, assentii. Quando mi diedero il pronti, mi sputai sulle mani, e, aiutato da Tonino, mi infilai a fatica nel buco graffiandomi un poco i gomiti. Finalmente riuscii a passare lasciandomi scivolare lungo la corda. L’attrito mi procurò una dolorosa ustione ai palmi delle mani che fece terminare la corsa con una fragorosa caduta sul piano sottostante del tavolo da ping-pong che si sfondò, attutendo però la mia caduta. Non feci una piega. Mi sentivo un eroe. Mi portai così alla porta del campanile e, con gran fatica, riuscii a spostare il bigliardino, e, a dare la sospirata libertà ai miei due compari. Questi mi abbracciarono con gran trasporto poi, senza troppi trastulli, verificato che il resto della via era libero, si portarono in strada precedendomi di qualche passo. Dopo qualche metro di corsa, ce n’andammo per i fatti nostri, con le mani in tasca, così com’eravamo arrivati.
(*) L'episodio è tratto da "Piazza S. Anna" Raccolta in parte inedita
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