La peste del 1656 inasprì la tensione tra potere civile ed ecclesiastico che si trascinava da anni soprattutto per la specificità della nunziatura napoletana che derogando dalle norme che dovunque caratterizzavano l’istituzione (a Napoli mancavano gli elementi essenziali di sovranità e indipendenza statale) era fonte di continui problemi.
La dipendenza del Regno dalla Spagna, dove già era regolarmente accreditato un nunzio pontificio, impediva di fatto alla nunziatura napoletana di costituire un’istituzione importante per la discussione di problemi di politica internazionale (che avveniva altrove) e la faceva scadere a istituzione secondaria funzionale agli interessi del papa che poteva tenere a Napoli un proprio rappresentante investito delle funzioni di nunzio.
Viceré e Collaterale[1], consapevoli dell’illegalità di fondo di tale insediamento, impedirono che potesse diventare strumento di rafforzamento del potere ecclesiastico: perciò bolle, brevi, lettere di giurisdizione straordinaria, provvedimenti e disposizioni provenienti da Roma potevano avere esecuzione nel Regno solo dopo essere stati vagliati e approvati col regio exequatur.
Allo stesso iter procedurale erano sottoposte nomina e destinazione dei vescovi nel Regno e qualsiasi deroga a tali norme concordate produsse sempre reazioni decise da parte del Collaterale che fece della difesa del potere civile un punto irrinunciabile del proprio operato politico come testimoniano le tensioni giurisdizionali fomentate dal Filomarino, cardinale arcivescovo di Napoli.
Dopo gli aspri contrasti che avevano caratterizzato il governo dell’Oñate, il tentativo del successore, conte di Castrillo, di instaurare rapporti più distesi con l’autorità ecclesiastica fu bloccato da un gesto del cardinale interpretato dal viceré come un attacco aperto alla real giurisdizione.
All’indomani della peste il Cardinale aveva creduto, come un po’ tutta l’aristocrazia, di trovarsi di fronte ad una profonda crisi dell’organizzazione statale e provvide ad emanare un editto che proibiva l’accesso a Napoli degli ecclesiastici sprovvisti di licenza sanitaria arcivescovile scritta sostenendo di aver ricevuto quest’ordine dalla Sacra Congregazione. Ma poiché un analogo provvedimento era stato dettato dal viceré per chiunque si fosse recato a Napoli, l’editto del Cardinale (privo peraltro del regio exequatur) sembrò voler affermare l’esclusione degli ecclesiastici dal provvedimento governativo e il Collaterale, nella seduta del 28 febbraio 1657, ne votò la revoca.
Il documento contenente tale decisione, consegnato al Filomarino ai primi di marzo dopo il fallimento di una soluzione diplomatica, fu seguito dall’emanazione di un bando che documentava l’illegalità dell’intervento ecclesiastico in materia sanitaria.[2]
A questa tensione di fondo, che si sarebbe protratta fino all’esasperazione, si sovrapposero altri due eventi: la nomina papale di un nuovo inquisitore a Napoli e il trasporto in processione alla maniera degli scomunicati, deciso dal vicario del Filomarino, di uno sbirro assassinato dopo aver arrestato un pregiudicato in una strada pubblica davanti alla chiesa delle Scuole Pie .
Sulla nomina del nuovo inquisitore, anticipando la linea politica che avrebbe tenuto in seguito, il Collaterale suggerì al viceré di rispondere “che non voleva questi impiastri, ma che risolutamente gli facesse intendere che non avrebbe permesso che venisse un forestiero qua per un simile ufficio” mentre in merito alla processione pretese dal Cardinale l’espulsione del suo vicario anche se poi ammorbidì la propria posizione.[3]
Restò intransigente sulla questione sanitaria precisando nella risposta ad un breve pontificio le differenti competenze delle due autorità: al papa quelle spirituali, al governo civile quelle politiche, economiche e sanitarie del Regno.[4]
Ma l’intervento pontificio riaccese le velleità del Cardinale che, senza chiedere il regio exequatur, ripubblicò l’editto col divieto assoluto per il clero di accogliere forestieri in casa. Il Collaterale replicò impartendo ordini più severi ai castelli sul divieto di accesso per chiunque fosse sprovvisto dei bollettini sanitari conformi alle disposizioni vicereali e invitando il Filomarino a richiedere il regio exequatur.[5]
Il Cardinale si giustificò sostenendo di aver agito su ordine del Papa e alla minaccia di duri provvedimenti nei suoi confronti si mostrò irremovibile e disposto allo scontro aperto, pronto ad utilizzare tutti i mezzi che la giurisdizione ecclesiastica gli consentiva, dalle censure agli interdetti.[6]
La risposta dei Reggenti si limitò al sequestro del suo casale nei pressi di Aversa perché, quando si trattò di proseguire con l’arresto dei parenti e la sua espulsione dal Regno, si creò in seno al Collaterale una profonda spaccatura e la maggioranza del Consiglio ritenne più prudente attendere conferme da Madrid e avviare una soluzione diplomatica preparando un incontro a Roma tra l’ambasciatore e il pontefice.[7]
In questo clima di tensione venne intrapreso, nel gennaio 1658, il viaggio del Sobremonte a Roma con un’agenda fittissima di impegni.
Lo scopo essenziale della missione fu la ricerca di una soluzione alle numerosissime questioni aperte con lo Stato Pontificio quali il regio exequatur alla bolla relativa alla soppressione dei conventini, la conferma in perpetuum della bolla di Leone X e di quella che vietava ai pregiudicati di rifugiarsi nelle chiese, l’accordo sul rientro degli esuli masanielliani, l’exequatur per le lettere provenienti da Roma, il conferimento degli ordini maggiori solo a chierici di una certa età, l’esenzione dei chierici coniugati dal godimento del foro in civilibus, le donazioni fraudolente a favore di ecclesiastici per sottrarsi agli oneri fiscali, la limitazione della competenza dei tribunali ecclesiastici alle sole questioni spirituali nei confronti dei laici, le usure e i contratti illeciti rilasciati a chierici anche defunti.[8]
La presenza a Roma del Sobremonte si rivelò anche un efficace strumento per seguire più da vicino le decisioni della curia romana e ricevere informazioni di prima mano come la decisione del pontefice, ai primi di ottobre, di inviare come inquisitore nel Regno il forlivese mons. Piazza .[9]
Se questa notizia riconfermò in seno al Consiglio la linea politica di intransigente ostracismo nei confronti dei vescovi extraregnicoli destinati a quest’incarico, più morbido apparve l’atteggiamento verso il Filomarino per non intralciare la missione diplomatica del Sobremonte e l’instaurarsi di un clima di maggiore distensione che doveva portare, proprio in quei giorni, alla riapertura del commercio con lo Stato Pontificio e con la Repubblica di Genova, indispensabile alla lenta ripresa del Regno avviato ad uscire dal completo isolamento in cui lo aveva relegato la peste del 1656.[10]
Con la partenza del conte di Castrillo, sostituito al vertice del governo dal conte di Peñaranda, la situazione sembrò subire un ulteriore miglioramento.
Il nuovo viceré avviò a soluzione la questione dei conventini dibattuta da più di dieci anni ed esplosa con la razionalizzazione dei conventi operata nel 1652 da Innocenzo X: la determinazione papale di rendere autosufficienti i conventi aveva portato alla chiusura di quelli con meno di 12 religiosi.
Non erano state estranee a questa decisione del papa sia la pressione esercitata dal clero regolare e dai vescovi per liberarsi della concorrenza della vasta e capillare opera di apostolato esercitata dagli ordini religiosi sia la possibilità dei vescovi di acquisire i beni dei conventi soppressi e utilizzarli per il sostentamento dei giovani che entravano nei nuovi seminari istituiti dal concilio di Trento.
La soppressione di 1513 conventi in seguito alla bolla Instaurandae aveva colpito soprattutto gli ordini mendicanti del meridione e del napoletano.
Non tutti i monaci dei conventi soppressi poterono essere assegnati come soprannumerari ad altri conventi dell’ordine di appartenenza; anzi moltissimi avevano lasciato indebitamente il chiostro vagando senza fissa dimora facendo diventare l’apostasia da conventi e congregazioni religiose un problema di ordine pubblico che coinvolse il potere statale: coinvolgimento attivo che sembrò creare una forte solidarietà tra viceré, curia romana e arcivescovo napoletano.[11]
Ma la tensione di fondo non era stata eliminata: le pretese ecclesiastiche di immunità fiscale per i chierici coniugati, i contrasti per le immunità delle chiese e l’attività zelante del nuovo inquisitore napoletano inviato a Napoli in un delicato momento che aveva impedito al governo un’efficace opposizione alla nomina, aprirono uno scontro tra potere civile ed ecclesiastico che si sarebbe acutizzato con il caso Peluso e con l’opposizione popolare all’Inquisizione.
È vero che a dicembre mons. Piazza, nonostante la sua azione inflessibile mietesse già le prime vittime (tra cui il conte di Mola arrestato, trasferito a Roma e processato per questioni di S. Ufficio), vedeva riconosciuta la sua nomina di inquisitore dal viceré e una lettera del Sobremonte ne certificava le buone qualità; ma l’intensificarsi dell’attività inquisitoriale e l’intransigenza dei due contendenti avvertiva che si stava scivolando verso la guerra aperta sul problema giurisdizionale. [12]
A farla esplodere fu un banale ma sanguinoso e crudele episodio di cronaca cittadina avvenuto nell’aprile 1660 e illustrato in Collaterale dal giudice Marciano.
Un certo Marco Peluso, soprannominato Carcioffola, cocchiere dell’arcivescovo, aveva accoltellato e ucciso la moglie di un ortolano con cui era venuto a lite: la donna era all’ottavo mese di gravidanza e la creatura le fu estratta dal ventre e battezzata.
Il Peluso, in seguito alla generale commozione e all’indignata protesta della città, fu immediatamente arrestato e tradotto in giudizio davanti alla Vicaria[13].
Ma il cardinale, trattandosi di un suo dipendente, invitò il vicario generale Orazio Maldacea ad inviare ai ministri di Vicaria un monitorio, cioè una diffida a procedere contro il Peluso con l’ordine di consegnarlo entro 24 ore al tribunale ecclesiastico e di presentarsi essi stessi per rispondere della violazione della bolla “Coenae Domini”.[14]
Le autorità laiche replicarono con una lettera al Vicario in cui si riaffermava la competenza della Vicaria nel procedimento giudiziario in corso e con l’invio del segretario del Regno dal Cardinale nel tentativo di convincerlo ad accettare il provvedimento regio che avrebbe soddisfatto le aspettative generali. Il tentativo fallì e il cardinale minacciò di fulminare scomuniche se non gli fosse stato consegnato il cocchiere.[15]
Il Collaterale provò allora a far pressione sul Vicario, ma quando questi rispose di non poter venire incontro alle aspettative del viceré perché l’Arcivescovo aveva avocato a sé la causa, non esitò a ordinare ai giudici di procedere nella loro azione giudiziaria nei confronti di Marco Peluso.[16]
Nonostante l’interessamento del Nunzio e di Roma il Cardinale continuò per la sua strada: il 16 aprile fece affiggere alle porte dell’Episcopio, della Vicaria e della Nunziatura un monitorio ultimativo con la richiesta di un’immediata consegna del reo minacciando di infliggere una scomunica a tutti i giudici; ma questi riaffermarono le motivazioni di competenza a procedere e intimarono al Vicario, se il Cardinale avesse inflitto la scomunica, di abbandonare Napoli entro 6 ore e il Regno entro 5 giorni.[17]
Il 17 aprile, mentre la Vicaria completava il processo con la condanna a morte di Marco Peluso, il Filomarino preparava i cedoloni di scomunica per i giudici e quando il governo, il giorno seguente, fece eseguire la condanna in piazza Mercato ne ordinò l’affissione.
Al gesto dell’arcivescovo il governo rispose con l’espulsione del Vicario e Roma tornò ad interessarsi alla questione: la serrata controversia sul principio dell’autonomia e della pienezza giurisdizionale invocata da entrambi i contendenti tenne impegnati fino a metà giugno il segretario di stato pontificio mons. Pacca, il Filomarino, il nunzio Spinola e lo stesso Viceré.
Quando il Pontefice, tramite il Nunzio, impose al Maldacea, che stava già allontanandosi da Napoli, di ritornarvi subito e tentò di anticipare l’opposizione del Collaterale facendo balenare la possibilità di interdire il Regno, i Reggenti non si lasciarono intimorire e ribadirono la legalità della loro azione, consapevoli che permettere il rientro del Vicario avrebbe significato la resa del potere laico a quello ecclesiastico.
Questa linea di fermezza spinse la parte ecclesiastica a tentare un approccio diplomatico: il Nunzio addossò ogni responsabilità all’intransigenza dell’Arcivescovo e si accordò col Viceré sul rientro del Maldacea con la clausola che sarebbe stato richiesto personalmente dal Papa.[18]
Ma la lettera del card. Chigi del 3 maggio non sembrò averla recepita: diretta non al Viceré ma al Nunzio, lo invitava ad adoperarsi per il rientro del Vicario come se un tale evento dipendesse da lui e non dalla volontà del governo.
Ancora una volta l’azione diplomatica saltò e il Collaterale provvide ad inviare al Filomarino la richiesta di revocare le censure e di scacciare il Maldacea dal palazzo arcivescovile dove si era rifugiato dopo essere riuscito a rientrare a Napoli.[19]
Il Cardinale provò a minimizzare il caso in cui erano invece in gioco il prestigio e l’autorità del potere statale e declinò sostanzialmente le richieste del governo: non poteva scacciare il Vicario in quanto gli era stato consegnato dal Nunzio e non poteva ritirare le censure perché la causa era stata avocata dalla S. Congregazione dell’Immunità.[20]
Il Collaterale, preso atto delle giustificazioni addotte, decise di lasciar passare alcuni giorni: si era alla vigilia di Pasqua e si sperava che da Roma giungessero segni di distensione; ma svanita anche questa speranza attuò una serie di provvedimenti quali l’arresto dei nipoti del cardinale (Ascanio e Francesco Filomarino) tenuti in blanda prigionia in Castel Nuovo, il sequestro del suo casale nei pressi di Aversa e dei suoi depositi (sia i 44.000 ducati sul Monte della Pietà che i 9.000 sul Monte dei Poveri) e il mandato di arresto anche per i parenti del Maldacea domiciliati a Massa.[21]
Il Vicario tentò comunque di sottrarsi all’ordine di espulsione: partito da Napoli alla volta di Messina, a Vietri si pentì della decisione presa e si ritirò nel monastero della Trinità della Cava tanto che il Collaterale fu costretto a scrivere al governatore della città di ricercarlo e costringerlo a riprendere il viaggio. A metà di giugno l’ordine doveva essere stato eseguito se il Nunzio faceva affiggere un monitorio contro il Vicario per avere lasciato il Regno senza l’ordine del Papa e per essersi sottomesso al potere civile. Seguì in agosto un decreto che lo privò di ogni dignità ecclesiastica e degli ordini sacri con conseguente divieto di celebrare messa; ma il Collaterale ne prese le difese: si accertò dell’esistenza del decreto ecclesiastico, ne contestò la validità perché affisso senza regio exequatur e contestò al Nunzio la pretesa di avere poteri illimitati su tutti gli ecclesiastici del Regno.[22]
Intanto i giudici di Vicaria si erano visti ritirare la scomunica in cambio della liberazione dei nipoti del Cardinale e ai primi di luglio il canonico Paolo Garbinato aveva preso possesso dell’ufficio lasciato vacante dal Maldacea.
Da tale controversia fu il potere civile a conseguire la soddisfazione maggiore: giocò a suo favore sia l’isolamento in cui era stato lasciato il Filomarino dall’opinione pubblica colpita dall’odiosità del delitto commesso e dalla sensazione che il Cardinale si stesse battendo per ritardare il castigo del reo sia, soprattutto, il generale deterioramento della posizione del clero napoletano.
La nuova società che si andava formando nel Regno cominciava ad essere stanca di una Chiesa che agli interessi spirituali prediligeva l’arricchimento sfrenato, le liti giudiziarie e le complicazioni ereditarie e patrimoniali.
Le due consecutive vittorie ottenute dal potere civile su licenze sanitarie e caso Peluso indicavano chiaramente come il governo potesse agire sulla base di una cosciente collaborazione popolare.
L’opinione pubblica, consapevole che i contrasti giurisdizionali nascondevano grossi problemi di carattere economico, continuò ad appoggiare il viceré anche nella controversia sul contributo richiesto dal Pontefice agli ecclesiastici del Regno da inviare all’imperatore Leopoldo I per la guerra contro i Turchi e a cui il Collaterale negò costantemente il regio exequatur.
Il documento papale prevedeva che tutti gli ecclesiastici del Regno che avevano entrate su chiese e luoghi pii avrebbero dovuto versare a Roma per dieci anni il 6% del loro reddito tramite la Nunziatura; ma il viceré, contrario alla fuga all’estero dei capitali del Regno, non volle concedere la propria autorizzazione dando luogo ad una tensione col potere ecclesiastico durato vari mesi. Il Collaterale ne fece consulta al re di Spagna nel marzo 1661, ma il Filomarino continuò imperterrito a richiedere i pagamenti anche senza l’autorizzazione governativa motivando la sua posizione con un’autorizzazione pontificia che definiva la decima un’imposizione universale e non necessaria di regio exequatur.[23]
Quando però il Collaterale impartì l’ordine tassativo agli istituti religiosi di non inviare denaro a Roma non trovò la solita accanita reazione: il cardinale, insofferente delle fortune del Chigi e desideroso di trovare pace nei suoi agitati rapporti col potere civile, si rifiutò di esigere le decime protestando la propria incompetenza in quanto materia propria della Nunziatura.
Altrettanto difficile si rivelò la battaglia ingaggiata nel 1661 sulla questione dell’inquisizione in cui intervenne in modo molto duro lo stesso nunzio Spinola che sul problema delle licenze sanitarie e sul caso Peluso si era adoperato a far valere la voce della ragionevolezza sia con il governo che con la corte pontificia.
Con l’eccezione degli incidenti provocati da mons. Petronio tra il 1626 e il 1631, l’Inquisizione napoletana affidata al Tamburello, già vicario diocesano di Napoli, non aveva suscitato difficoltà di rilievo fino al 1656, quando, per la morte del vescovo, l’incarico fu ricoperto momentaneamente fino alla nomina di mons. Piazza.
La riattivazione di un organo la cui attività si era fino ad allora istradata sui binari della più assoluta normalità raggiunse la coscienza popolare attraverso i casi vistosi dell’incriminazione del conte di Mola Duarte Vaaz per segreta pratica di ebraismo con conseguente confisca dei beni e di quella del duca delle Noci per aver letto un libro censurato. Ma non vanno dimenticati né il proliferare delle carceri del S. Ufficio, che raggiunsero in numero di sette o otto, né l’aumento dei procedimenti divenuti più sommari ed arbitrari né le malversazioni e prepotenze scandalose con cui il nuovo inquisitore e i suoi agenti e rappresentanti portavano avanti la loro attività.
A mettere in moto le Piazze di Napoli fu la reazione del duca delle Noci: da una riunione di gran cavalieri e cittadini tenuta in S. Lorenzo il 31 marzo scaturì la decisione di riunire le Piazze il sabato successivo 2 aprile.[24]
Il 5 aprile la Deputazione eletta dalle Piazze si presentò in Collaterale a chiedere l’allontanamento di mons. Piazza e la conservazione della prassi inquisitoriale nel Regno quale era stata fissata 114 anni prima in seguito ai tumulti avvenuti per le stesse ragioni nel 1547.
Il viceré, nell’accomiatare la Deputazione, assicurò che nei giorni successivi avrebbe fatto conoscere la sua decisione: aspettava infatti di conoscere l’esito dei contatti diplomatici che aveva avviato, tramite l’ambasciatore a Roma, con il pontefice il giorno precedente quando, incontrando anche il Nunzio, lo aveva invitato ad esortare mons. Piazza ad allentare la sua zelante attività e a ritirarsi per qualche tempo nel convento di Monte Oliveto o in quello di Monte Cassino.[25]
L’8 aprile giunse da Roma la decisione di espellere mons. Piazza dal Regno e la notte del 10, con una scorta di soldati a cavallo messa a disposizione dal viceré, l’inquisitore venne accompagnato alla frontiera.
A maggio la sua ventilata sostituzione suscitò la protesta del Collaterale perché il successore designato aveva già creato problemi alla real giurisdizione come vescovo di Ragusa e Barletta. I Reggenti erano intenzionati, dopo tanti contrasti, a dare una loro impronta precisa all’elezione del nuovo inquisitore che, oltre ad essere vescovo del Regno, avrebbe dovuto mostrarsi ligio alla politica vicereale.[26]
Come già nel 1656 con le licenze sanitarie e nel 1660 col caso Peluso, anche questo contrasto tra Stato e Chiesa si concluse con la vittoria del potere civile e se la questione si protrasse ancora fu per i contrasti sorti tra le Piazze cittadine e il viceré: gli ambienti aristocratici avevano tentato di strumentalizzare il problema dell’inquisizione per riaffermare una presenza politica che dal 1648 in poi non aveva trovato modo di farsi valere; ma il viceré, conte di Peñaranda, consapevole della manovra, si preparò a vanificarla.
Dopo lunghe riunioni tra aprile e maggio alla ricerca di una comune piattaforma rivendicativa delle sei Pazze due sole richieste trovarono l’accordo unanime: che i processi per S. Ufficio non implicassero il sequestro dei beni e che pertanto venissero dissequestrati quelli del conte di Mola. Per il resto la spaccatura fu profonda: se le Piazze di Capuana, Porto e Montagna chiedevano che l’inquisizione napoletana fosse affidata al locale arcivescovo come ordinario, senza particolare delega pontificia e secondo le norme canoniche, la Piazza di Nido, la minoranza di quella di Portanova e quella del Popolo ammettevano che vi fosse un inquisitore come figura distinta da quella dell’arcivescovo purché procedesse secondo l’uso invalso nel Regno prima degli eccessi di mons. Piazza.[27]
Questa divisione facilitò l’opera di repressione messa in atto dal viceré nei confronti di ciò che restava ancora dell’agitazione: il primo luglio il Collaterale vietò la riunione delle Piazze programmata per il giorno seguente e minacciò di applicare una pena pecuniaria di 4.000 ducati a chiunque dei deputati e dei 5 e 6 delle Piazze avesse contravvenuto all’ordine. Il 15 luglio, alla luce di una lettera del re di Spagna indirizzata agli Eletti della città, dichiarò decaduta la Deputazione eletta il 2 aprile per affrontare il problema dell’inquisizione e le tolse definitivamente il compito il 18 luglio allorché, su richiesta dell’eletto del Popolo, decretò che “ si levasse l’inibitoria ai cinque e sei deputati di potersi unire e convocare le Piazze a rispetto di tutte quelle che avevano da trattare per beneficio del pubblico eccettuato però il negotio di mons. Piazza il quale resta sopito…”[28]
Dopo un tentativo del Nunzio in settembre di voler assumere l’ufficio di inquisitore e le aspre proteste del Collaterale che portarono ad un serrato scambio epistolare tra Viceré e Pontefice, in ottobre si decise per la successione di mons. Piazza che intanto si era stabilito a Terracina.[29]
Così quando tra novembre e dicembre prima la Piazza del Popolo e poi la Deputazione e gli Eletti si recarono in visita al viceré, questi confermò loro la decisione di Madrid di conservare l’inquisizione, seppur con i procedimenti precedenti a quelli attuati da mons. Piazza.
La vittoria del Viceré fu completa e la nobiltà, che aveva puntato tutto sul passaggio dell’Inquisizione dalle mani del ministro pontificio a quelle del locale arcivescovo, venne sconfitta.
Nel luglio 1662 furono dissequestrati i beni del conte di Mola e nell’aprile 1663 il papa nominò inquisitore del Regno il vescovo di Bitonto Alessandro Crescenzi che, pur essendo vescovo del Regno, non era regnicolo e pertanto la sua nomina contraddiceva uno dei punti essenziale degli accordi tra Piazze e Vicerè.
Proteste però non ve ne furono: segno evidente che tanti mesi di lotte e agitazioni sul problema dell’inquisizione erano state determinate da obiettivi eminentemente politici.[30]
Tra il 1662 e il 1667 continuarono gli strascichi relativi alla bolla sulle decime:
l’opposizione vicereale all’esecuzione della bolla pontificia nel Regno e l’esenzione decretata dal Collaterale per tutte le estaurite (chiese tenute da laici) esasperarono la tensione tra stato e chiesa. Era chiaro che la questione coinvolgeva una più vasta problematica economica che si trascinava da anni ma delle cui dimensioni il governo si rendeva conto forse solo ora.[31]
L’eccezionale proliferazione del clero, l’illegale tassa sul commercio domenicale e festivo imposto dal Filomarino e la pretesa di raddoppiare le tratte di vino per la curia pontificia diventarono l’oggetto su cui si instaurò il braccio di ferro tra potere civile ed ecclesiastico.
Nell’estate del 1665 il governatore della Terza denunciò in un memoriale l’eccessivo numero di ricchi cittadini che negli ultimi trent’anni avevano abbracciato gli ordini sacri per sottrarsi al pagamento degli oneri fiscali gravanti sulle loro terre che così continuavano a possedere a titolo di donazione.[32]
Sollecitato da tale denuncia il Collaterale emanò un decreto che prevedeva l’arresto di quanti facessero donazioni alla Chiesa, ma il provvedimento non fermò la corsa agli ordini sacri: due anni dopo, un censimento sugli ecclesiastici del Regno accertava che, tra sacerdoti, diaconi, suddiaconi, clerici in minoribus, coniugati, diaconi selvaggi e oblati, essi avevano raggiunto il consistente numero di 56.446. I Reggenti ne fecero consulta al Re di Spagna chiedendo provvedimenti che ne determinassero la diminuzione, consapevoli che l’esenzione fiscale di cui godevano determinava il raddoppio degli oneri per i contribuenti laici.[33]
Tra le fine del 1665 e gli inizi del 1666 fu affrontata la questione della chiusura domenicale e festiva dei negozi che anche la Chiesa già da tempo faceva osservare, ma su cui sorvolava dietro congrui pagamenti.
Fu la protesta dei negozianti, esasperati dalle richieste ecclesiastiche divenute ormai insostenibili, a imporre l’intervento del governo che il 21 dicembre 1665 decretò illegale l’esazione imposta dal Filomarino ai rifornimenti annonari e ai viveri di prima necessità, ma non alle botteghe di calzolai e barbieri per le quali si nutriva ancora qualche dubbio. Ad avallare la decisione governativa c’era il breve del pontefice Urbano VIII, la decisione presa dalla S. Congregazione nel 1603 in un’analoga questione e tutto l’insegnamento della Chiesa. Pertanto, mentre il Viceré avviava una soluzione diplomatica della questione, il Collaterale affidava ai tribunali civili e all’avvocato della Città Ignazio Provenzale l’incarico di difendere i sudditi dalle illegali pretese dell’Arcivescovo.[34]
Gli incontri diplomatici si intensificarono sollecitati da una nuova protesta cittadina sui danni arrecati dalla “oppressione e vessattione che danno li cursori del sig. cardinale Filomarino Arcivescovo a quelli che introducono cose comestibili” e sembrarono avere esiti positivi: il Cardinale si impegnò ad abolire la tassa sul commercio festivo sia alle porte della città che nei borghi e si convenne di porre nei giorni festivi una tavola di fronte alle botteghe e un drappo davanti alle macellerie.[35]
Ma l’impegno restò sulla carta. Lo si scoprì neanche due mesi dopo con l’arrivo in Collaterale di un nuovo memoriale “sopra li eccessi che continuano li cursori della Curia Arcivescovale di nuove esattioni in danno del pubblico” e il governo decretò l’abolizione della tassa ecclesiastica almeno sul commercio all’ingrosso alle porte della città lasciando ai piccoli negozianti la possibilità di una libera contrattazione con l’Arcivescovo in attesa che l’ambasciatore del Regno a Roma sollecitasse un risolutivo intervento pontificio.[36]
La questione della tratta dei vini fu affrontata tra settembre e ottobre del 1667: il Viceré illustrò i danni arrecati all’Arrendamento dalla stipulazione della tratta di ulteriori 200 botti di vino destinate al Collegio Ungarico e Germanico di Roma oltre le 200 già inviate annualmente per antica consuetudine e invitò i Reggenti a farne consulta al Re di Spagna chiedendone l’abrogazione. Il 3 ottobre, sulla scorta della risposta del sovrano e in seguito ad una sollecitazione del Nunzio, si chiarì che la concessione era a discrezione del sovrano e a favore dei cardinali fedeli alla corona e non, come stava diventando, un preciso dovere nei confronti di un organismo ecclesiastico che il governo non riconosceva in quanto tale.[37]
[1] Il Consiglio Collaterale, organo istituito da Ferdinando il Cattolico nel 1507 e posto, come consiglio di Stato, accanto al viceré (le sue pronunce furono rese vincolanti da una prammatica di Filippo II nel 1593) caratterizzò il periodo vicereale. Composto da viceré, che ne era il capo, da due reggenti (che poi crebbero di numero), dal segretario del regno e da due segretari privati del viceré, il Collaterale assumeva il governo per morte o assenza del viceré. Accentrando nella sua struttura sia funzioni consultive che deliberative e giudiziarie aveva una cancelleria, una segreteria diretta da un secretarius regni ed un tribunale. Soppresso il 7 giugno 1735, fu sostituito dalla Camera di S. Chiara.
[2] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61: 26 febbraio e 5, 8, 13 e 16 marzo 1657.
[3] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61: 12, 15,19 e 22 giugno 1657.
[4] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61:;13 e 22 agosto 1657.
[5] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61: 24 agosto e 1 settembre 1657
[6] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61: 13 e 24 settembre; 12 ottobre 1657
[7] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 61: 19 ottobre 1657
[8]Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale 62: 21 gennaio 1658
[9] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale 62: 2 e 5 ottobre 1658
[10] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale 62: 18, 21 e 30 ottobre 1658
[11] Cfr. G. Galasso, Napoli Spagnola dopo Masaniello(Politica – Cultura – Società), ESI, Napoli, 1972, pag 59 e E. Boaga, La soppressione innocenziana dei piccoli conventi in Italia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1971.
[12] Archivio di Stato di Napoli, Not. del Consiglio Collaterale, vol. 63: 27 agosto, 5 e 9 settembre, 3 dicembre 1659.
[13] La Gran Corte di Vicaria, prima magistratura di appello di tutte le corti del Regno di Napoli, istituita da Carlo II d’Angiò attraverso la fusione del Tribunale del Vicario con la Gran Corte, ebbe sede a Castel Capuano con la riforma voluta nel 1537 da don Pedro Toledo. Strutturata in 4 sezioni giudicava in prima istanza reati commessi nel napoletano e in appello tutti quelli commessi nelle province nel Regno.
[14] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 6 aprile 1660.
La bolla “In coena Domini” pubblicata da Pio V nel 1568 rese molto tesi i rapporti dei vari stati europei e italiani col Papato. Essa vietava ai principi di accogliere persone non cattoliche nei propri territori e di intrattenervi rapporti anche epistolari nonché di punire per colpe civili cardinali, prelati e giudici ecclesiastici nonché i loro agenti, procuratori e congiunti. Vietava ai sovrani temporali di imporre pedaggi, gabelle, prestiti, decime sui beni dei chierici senza l’approvazione della curia romana. Vietava all’autorità laica di sequestrare la rendita delle chiese, dei monasteri e i benefici ecclesiastici; tutte le cause che riguardassero questioni del genere dovevano essere sottratte al foro temporale e riservate a quello ecclesiastico. Proibiva al principe l’esercizio dell’exequatur sulle concessioni e i decreti pontifici e lo considerava scomunicato qualora occupasse terre della Chiesa o le muovesse guerra.
[15] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 7 aprile 1660
[16] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 14 e 15 aprile 1660
[17]Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 16 aprile 1660. Cfr. anche G. Galasso, Napoli spagnola…, op. cit., pag. 59.
[18] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 27 e 30 aprile 1660.
[19] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 3 e 13 maggio 1660.
[20] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 14 maggio 1660.
[21] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 31 maggio 1660.
[22]Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 64: 7, 9 e 15 giugno; 11,12, 18 e 23 agosto 1660.
[23] Archivio di Stato di Napoli, Not. del Consiglio Collaterale, vol. 65: 13, 22 e 23 marzo; 12 agosto e 9 settembre 1661.
[24] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 65: 31 marzo 1661.
[25]Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 65: 4 e 5 aprile 1661.
[26] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 65: 8 aprile e 9 maggio 1661.
[27] Cfr. G. Galasso, Napoli spagnola…, op. cit., pag. 64.
[28] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 65: 1, 15 e 18 luglio 1661.
[29] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 65: 22 e 26 sett., 8 e 20 ottobre 1661.
[30] Cfr. G. Galasso, Napoli spagnola…, op. cit., pag. 67 e 68.
[31] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 65: 6 febbraio 1662 e vol. 66, 20 nov. 1663.
[32] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67: 28 agosto 1665.
[33] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67: 22 aprile 1667.
[34] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67: 4 e 17 dicembre 1665.
[35] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67: 23 dicembre 1665.
[36] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67: 4 febbraio 1666.
[37] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67: 16 settembre e 3 ottobre 1666.
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