Dall’esperienza Ethnic di Henry Matisse e del Figurativismo di Auguste Rodin, alla Concept Art di Vittoria Marziari-Donati.
Quando Henry Matisse nel suo atelier parigino dipinse quella che è considerata la sua opera più eclettica, dedicata ‘alla danza’ (1901), e che noi tutti conserviamo negli occhi come qualcosa di estremamente ‘appropriata’ al nostro background culturale, forse non sapeva di aver restituito all’arte ciò che l’arte della danza in primis aveva dato all’artista suo contemporaneo, cioè l’inprimatur che serviva all’arte per immettersi nel movimento cosmogonico della ‘creazione’. Le cinque figure femminili danzanti, che rimandano infatti al periodo naif della nostra infanzia artistica, entrate nell’arte ‘nude’ nella loro essenza corporea, per così dire ‘vergini’ nella trasparenza della materia che le compone; ‘unite’ dall’afflato della vita che si respira nelle campiture di colore: il rosa dei corpi, il verde del prato, l’azzurro del cielo, esattamente come doveva essere ed era in principio, lo sprigionarsi nella danza narrata dal mito. Una danza che potremmo anche definire ‘immobile’ perché risolta sul piano uni-dimensionale della tela, ma che fin dal primo colpo d’occhio rende quei corpi in euritmico movimento, liberi dalla staticità sovrastrutturale cui gran parte dell’arte così detta li ha conservati nel tempo ‘rivestendoli’ di dubbi contenuti, di fronzoli inutili e orpelli inservibili.
Nella nostra contemporaneità può sembrare pleonastico ripercorrere una tappa così importante della storia dell’arte che pure non è la sola o l’unica da poter prendere a esempio, tuttavia l’addentrarci in questo discorso e viverlo dall’interno, assume un significato che non è solo simbolico, bensì ‘astratto’ nel pieno senso del termine, come appunto lo è stato voler ricominciare dalla ‘danza’ di Henry Matisse per dare all’arte figurativa contemporanea un sostegno nella sua evoluzione successiva al periodo, come per un ritorno alla dimensione naturale, o meglio ‘naturalistica’ del soggetto individuale che si esprime nella ‘collettività’ all’interno dello spazio sociale di competenza. Allo stesso modo va interpretata la tela riferita a ‘la musica’ (1909) che, pur mantenendo lo stesso schema dei tre colori: rosso, verde, blu e un’identica impostazione della precedente, in essa sono raffigurati cinque nudi maschili stanti e seduti che intonano un canto che, se avvicinata a quella riferita a ‘la danza’ assume immediatamente un aspetto arcano in quanto dionisiaco. Ciò che però accomuna le due tele è ancora una volta la capacità intrinseca della ‘comunione’ dei corpi nudi maschili a quelli femminili, come per una rappresentazione per l’appunto ‘mitica’ e comunque ‘ancestrale’.
Si può aggiungere che non c’è danza senza la musica che l’accompagni e ciò si ripete fin dagli albori: dalla tribal-dance, all’ethnic-dance, alla contemporary-dance. Come in musica si va dal creative-jazz, al pop-jazz, al cool-jazz, al free-style ecc.; sì da reputare che l’unica musica che davvero si confà con la danza ‘non scritta’ sul pentagramma, bensì quella improvvisata sul movimento e il ritmo dato dalla danza stessa. Stessi infatti sono gli strumenti utilizzati: ‘a fiato’ (aulos, flauto traverso) per l’atteggiamento delle bocche è quello del ‘canto’ (emissione vocale), che ritroviamo nei due dipinti di Henry Matisse, il cui insieme va riferito a un’origine primordiale, ciò che ha permesso alla danza di formarsi e di evolversi fino ai nostri giorni. È quindi immaginabile che le figure dipinte da Henry Matisse suscitino in chi le osserva la voglia, spesso tenuta nascosta, di entrare a far parte della ‘danza universale’ a cui la luce offre la possibilità di una ‘quarta dimensione’, onirica e poetica, che apre alla liberalità delle emozioni e delle suggestioni, creando un microcosmo insconoscibile dall’ambiente in cui è inserita.
L’arte dunque come veicolo d’intesa tra l’uomo e la natura, a dimostrazione del fatto che non c’è contraddizione e che tutto si spiega nella forza generatrice che la contiene: “nella dimensione in cui il variare della luce da al movimento dei corpi e alla musica la profondità dei suoni, che ritroviamo piene di significato nell’assoluto cosmico silenzio che le circonda: lì dove l’arte s’inserisce nella natura e la natura diventa arte. (..) L'arte, dunque, in quanto contemplazione. Per il piacere della mente che cerca nella natura e che scopre lo spirito di cui la natura stessa è animata” – scriveva Auguste Rodin - definito dalla critica l’artista michelangiolesco per eccellenza del XVIII secolo, per la forza, l’impetuosità, la mente e la riflessione che ha impresso alle sue sculture. Ed è proprio dalla contemplazione delle sue opere ha impresso al mondo della scultura l’‘ispirazione’ che la distingue, riconducibile al modello figurativo antropologico-etnografico cui si rifà l’arte plastica per eccellenza, quale possiamo definire la scultura fin dai suoi primordi. Allorché il nudo era in arte l’unica dimensione possibile come la musica lo era d'accompagnamento alla danza, l’universale espressione della bellezza.
Ma se la grande originalità del lavoro di Rodin sta nell'essere partito dai temi mitologici e allegorici tradizionali per modellare le figure umane con realismo esaltando il carattere e la fisicità dell'individuo, ciò va riferito alla sua capacità ‘unica’ di plasmare l'argilla creando superfici complesse, vigorose e profonde che lo portarono all'innovativo realismo della sua prima grande scultura fino ad essere oggi considerato il progenitore della scultura moderna. Alla bellezza ‘nuda’ dei corpi s’ispirano poeticamente le opere scultoree di Vittoria Marziari-Donati, la quale partendo proprio dal plasmare l’argilla, recupera l’esperienza di quanti l’hanno preceduta, entrando nel mondo dell’arte solo apparentemente in punta di piedi, bensì suggerendo nuove emozioni sia a livello individuale sia a livello sociale, con l'affrontare tematiche umanistiche ed universali cui la globalizzazione ci ha abituati.
A partire da quella ‘società liquida’, in qualche caso esasperata da Zigmunt Bauman, in cui l’individuale è preso a fulcro della singolare decostruzione in ambito comunitario di cui Vittoria Marziari-Donati s’avvale in una prospettiva innovativa tipica della 'rivisitazione', pur nelle sue diverse intuizioni e manipolazioni, di un’arte scultorea “inserita nella natura in cui la natura diventa arte”: vale a dire l’inserimento, quando non propriamente di ‘innesto’, delle sue opere nella natura fisica di un ‘giardino di luce’ da lei stesso creato, intento a ristabilire l’ancestrale incontro/connubio con la dimensione naturale dell’arte, o per meglio dire, della dimensione ‘naturalistica’ del soggetto plasmato, all’interno del movimento cosmologico (omogeneo e isotropo) che ne ha permessa la ‘creazione’.
Recupero che fin dagli albori (attorno agli anni ’60-’70) ha avuto la sua definizione didascalica nella ‘land art’ caratterizzata dall’intervento diretto dell’artista sul territorio, la cui effimera esistenza veniva infine riassorbita dalla natura stessa da cui era generata, e che l’artista si trova oggi a ridefinire per apporvi la propria firma. Vale a dire, di costituire qualcosa di programmatico che renda stabile la propria impronta, come appunto l’inserimento fisico di un’opera d’arte negli spazi incontaminati come deserti, laghi, praterie; oppure in spazi organizzati all’uopo come giardini, parchi e piazzole, esterni o interni di rovine dell’antichità, proprio per meglio evidenziare che non c’è scollamento tra il passato e il presente dell’arte e che, infine, ogni cosa ha ragione di essere nel tempo in cui la viviamo.
Così, quella che oggi chiamiamo contemporaneità dell’arte, riflette di fatto ciò che siamo, sia presi individualmente nel dare forma a idee bislacche, sia che ci esprimiamo in un contesto sociale artisticamente formato. Ogni idea in arte può, allo stesso modo, scaturire da una realizzazione dai risvolti inusitati quanto grandi, pertanto va considerata come ‘opera’ esplicita della creatività umana primitiva o futuribile che sia. E' infatti in questo contesto ‘filosofico’ e con le stesse finalità che nasce a Siena, la fiorente città d’arte del centro Italia, il “Parco della luce” l’esposizione ‘a cielo aperto’ pressoché unica, voluta dalla scultrice Vittoria Marziari-Donati allo scopo primario di ridestare all’arte e alla natura il desiderio di conoscenza e di scambio culturale con le nuove generazioni. Una visita a un ‘museo’ che diventa una passeggiata nel cuore della luce, dove incontrare ‘geometrie spaziali’ come totem, ‘tensioni’ inconscie di corpi liberi nel verde, ‘speranze’ come risvegli che si crogiolano al sole, ‘sogni’ di vita, ‘inclinazioni’ e ‘proiezioni’ di un futuro di là da venire di energica introspezione.
Ed è ancora al ‘jazz’ che si fa qui riferimento, in alcuni titoli delle sue prime opere d’artista, quasi la sua ispirazione creativa formi un tutt’uno con quella musica che scaturisce ‘libera’ nel vento, dall’acqua che scorre primaria, nel fuoco delle passioni che a ogni tramonto ritorna all’assoluto cosmico silenzio di cui si compone, appunto: “lì dove l’arte s’inserisce nella natura e la natura diventa arte”. L’esposizione delle opere nel "Parco della luce" si ripete ogni anno con l’apertura al pubblico dal 15 maggio ed è visitabile fino al 15 giugno su prenotazione al n. cell. 348.3627855. Vittoria Marziari-Donati svolge la sua attività artistica a Siena nel suo atelier aperto in Via Stalloreggi 23; mentre il “Parco della luce” è sito in Strada dei Tufi 55, entrambi in quel di Siena.
Le sue opere sono visibili inoltre sul sito www.vittoriamarziari.it.
In copertina l'ultimissima opera ‘Controcorrente 2016': “..la validità non è omologarsi ma essere unici nell’unicità delle cose”, per cui remare 'controcorrente' ha significato di cavalcare l'onda della mediocrità in cui galleggia questo nostro mondo.
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