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Il cammino di Cobá

di Samuela Cittadini
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Pubblicato il 21/05/2023 12:49:12


Lasciando Tulum, la strada 109 dello Stato di Quintana Roo, in Messico, prima serpeggia in mezzo a case e ranch, a negozi e ristoranti, a pompe della Pemex e a fabbricati in costruzione, poi avanza dritta in mezzo alla giungla. È l’una e mezza di un pomeriggio di piena estate e il caldo comincia a farsi sentire. In alto, nuvole bianche in formazione libera cospirano per attenuare la luce, altrimenti abbagliante. Il verde è vivido, il cielo sbuca ovunque con guizzi d’azzurro. In lontananza riesco a vedere il riverbero del vapore che sale dalla strada.
Vai immediatamente alla Iglesia di Cobá e cerca la stele numero 11.
C’è scritto così, sul biglietto dai bordi bruciacchiati che mi ha messo in mano il vecchio messicano, al ristorante.
Poco prima avevo detto a Marcello: – Vado in bagno – ma lui troppo concentrato a guardarsi intorno, non mi aveva nemmeno sentita. Così avevo avuto per un attimo l’agio d'osservarlo non vista, osservarlo come la microbiologa (che non ero) avrebbe osservato un batterio al microscopio elettronico. Marcellusbapter, ingrandito un milione di volte, mostrava non solo le sue appendici pelose e vischiose, riuscivo pure a vederne le sue agguerrite e fameliche cellule interne, innocue fintanto che non ci fosse stata una preda alla sua portata. Avevo strizzato gli occhi e scosso la testa per liberarmi da quella visione, forse era vero quello che mi avevano detto, in Messico succedevano cose strane.
Nell’unico bagno del ristorante si era creata una discreta fila, un vecchio si era messo in coda dietro di me e subito si era chinato ai miei piedi, aveva raccolto qualcosa e poi mi aveva dato quel biglietto.
– Le è caduto questo, signora.
Aveva occhi curiosi e divertiti d’ossidiana argento che spiccavano sul volto meticcio inciso da mille rughe e io sapevo che il biglietto non poteva essere mio, ma lo avevo preso lo stesso e lo avevo guardato e, nel fare questo, quando avevo rialzato la testa il vecchio si era dileguato, svanito fra la folla del ristorante, inghiottito per intero, e avrei potuto pensare di averlo solo sognato, non fosse stato per la sensazione che mi aveva lasciato il bagliore del suo sguardo.
Il biglietto non era mio né poteva essere diretto a me, ero a Tulum da due giorni e non conoscevo nessuno a parte Marcello.
Ero tornata nella sala, avevo cercato il vecchio con lo sguardo, fra i tavoli, al bar, verso l’uscita ma era scomparso. Però riuscivo benissimo a vedere Marcello, la sua espressione da ladro riservata alle occasioni golose.  
C’ero cascata in pieno.
Non ci era voluto del genio da parte sua, ero stata proprio io ad avere ignorato tutti i segnali di pericolo.
Il mio problema sono io.
Marcello fiutava l’infelicità e l’insoddisfazione di una donna. Percepiva a pelle i suoi bisogni emotivi. L’insicurezza di lei lo esaltava. Sapeva che da una donna con quelle caratteristiche avrebbe potuto ottenere il massimo del vantaggio per se stesso.
Mi girava un poco la testa, ma mi sentivo lucidissima. A tavola avevo sorseggiato una birra, in attesa del mio ordine, mentre lui era concentrato a spuntare nella sua preziosissima lista tutte le cose da fare. Locali da frequentare, spiagge da vedere, barche da affittare. Quello era il suo momento di rimettersi in pari con il mondo, finalmente avrebbe avuto tutte le cose belle della vita che meritava, attraverso me.
Mi era venuto da ridere. Io, ai margini di una sala affollata, con un biglietto in mano destinato a chissà chi, a osservare Marcello e, insieme a lui, tutti i passi falsi che mi avevano condotta fino a lì.
Allora, avevo fatto marcia indietro ed ero rientrata in bagno, mi ero lavata il viso cercando sollievo nell’acqua fresca.
Quando avevo rialzato la testa, il mio volto nello specchio non mi sembrava il mio, invece quella con il kajal un po’ colato agli angoli degli occhi era proprio la mia faccia.
Potevo tornare al tavolo, continuare a stare al gioco, nascondere sotto a un sorriso pensieri di tutt’altra natura.
Che ci faccio qui?  Perché sono partita con lui?
Perché volevo fare questo viaggio, ma avevo paura di farlo da sola – no. Perché lo amo.
Cioè.
Lo amavo.
Riprova.
Credevo di aver bisogno di lui.
Così va meglio.
Sì, avrei potuto tornare al tavolo, soffocare quella rischiosa lucidità improvvisa che mi proiettava all’improvviso su un piano più elevato della realtà; certo, avrei potuto ignorare tutto e andare avanti come se niente fosse, come avevo sempre fatto ogni volta che un lampo di consapevolezza aveva cercato di disturbare la mia visione delle cose.
Invece era stato in quel momento che avevo deciso di uscire dal ristorante ed ero corsa a prendere la macchina.

La Iglesia di Cobá dista meno di cinquanta chilometri da Tulum e, ora, sono sulla strada. Sola.
E, non ho paura.
Arrivo nel parcheggio della zona archeologica che è zeppo di auto e pullman, ma c’è poca gente intorno, i turisti sono quasi tutti dentro. Le ore calde non vanno bene per iniziare queste visite, lo capisco pure da me. Ma non ho nessuna intenzione di tirarmi indietro.
Compro il biglietto e al botteghino mi offrono subito una guida, però preferisco fare il percorso per conto mio. In fondo, la mia non è una vera visita, assomiglia ogni secondo di più a una missione.
Pago l’uomo per farmi spiegare tutto quello che devo sapere. Lui mi mette in mano una mappa e mi dice quello che devo fare, devo tenermi sempre sulle strade bianche, le sacbeob, non entrare nella giungla, avere dell’acqua con me e un cappello. Nel lago di Cobá, alle nostre spalle, dice, ci sono i coccodrilli. Mi guarda dalla testa ai piedi, fino agli infradito e fa segno di no con la testa.
– Prendi una bicicletta, appena dentro o non riuscirai a vedere tutti i templi.
La guida è pensierosa, scuote di nuovo la testa.
– Perché non hai messo scarpe adatte se sapevi di venire qua?
– Perché non sapevo di venire qua.
– Uhm. Claro. Claro, – si gratta il mento, scrutandomi.
Ha una faccia simpatica, gli sorrido e lui mi dà una piccola pacca sulla spalla, come a un vecchio amico.
– Mucha suerte, señorita.
– Grazie, – rispondo e vado subito a fare quello che mi ha detto.
Compro una bottiglia d’acqua fresca e uno di quei cappelli con la visiera che mi sono sempre stati di merda e me lo metto. Faccio quello che devo.
La Iglesia di Cobá è il primo tempio che si incontra nel percorso. Sembra una pagnotta di marzapane, dà quasi una sensazione di morbidezza. La guida ha segnato sulla mappa tutte le stele da visitare, ha detto che devo assolutamente vederle, ci sono incisioni e iscrizioni che testimoniano addirittura il ruolo importantissimo delle donne nelle cerimonie sacre.
Spero solo che non sia perché fossero proprio loro a essere sacrificate.
Ma – ehi – comunque, niente di nuovo, sorelle
!
A me, per il momento, interessa soprattutto la stele numero 11 che si trova proprio davanti al tempio, protetta da una tettoia di paglia.
Solo che adesso non so che fare.
Mi guardo intorno, nel caldo e nel vociare tranquillo dei turisti.
Io volevo venire qui. Ho sempre voluto visitare queste rovine. Ero partita per questo, ma Marcello non voleva saperne. Per lui i templi avrebbero anche potuto crollare, era la bella vita quello che gli interessava. E io avevo rinunciato a visitarli.
È mia la colpa, il difetto è in me.
Paura della solitudine.
Non amore per me stessa.
Desiderio di colmare un vuoto.
Ero un I-Ching vivente dall’esito necessariamente infausto.
Invece ora sono qui.  
Mi avvicino alla pietra e ci appoggio il palmo della mano, sembrerebbe una roccia compatta ma a uno sguardo più attento si notano piccole crepe. Ce n’è una più grande, la osservo meglio, riesco pure a infilarci due dita, c’è qualcosa. Con l’indice e il medio afferro i lembi di un pezzetto di carta. Lo estraggo piano.
È un altro biglietto bruciacchiato sui bordi, come l’altro: Ora al Nohoch Mul. Sali in cima e siediti.
Sì, lo voglio fare.
Sulla mia mappa il Nohoch Mul è indicato a circa un chilometro e mezzo sulla sacbé bianca. Quarantadue metri di altezza, una delle poche piramidi Maya che si possano ancora scalare.
Mi guardo i piedi nudi nelle ciabattine sottili e allora torno indietro e decido di noleggiare quella bici. Quando ripasso davanti alla Iglesia, mi fermo un attimo per ricontrollare le indicazioni e mi avvio per la strada immersa fra gli alberi. È la strada giusta.
Mi chiedo soltanto, “questa strada ha un cuore?”[1]
Oggi questa domanda ha un senso per me.
E anche se mi trovo qui per eseguire gli ordini di uno sconosciuto, sento che è giusto così.
Pedalo fra gli alberi del bene e del male.
– Non toccarli! – ha ammonito, la guida, – crescono insieme intrecciati, uno produce una resina urticante e, l’altro, un siero che la guarisce, tu non toccarli!  
Pedalo sulla strada ricoperta di stucco bianco che forse, duemila anni fa, serviva a renderla più visibile durante la notte, e alla fine arrivo alla piramide.
Non è maestosa come l’avevo immaginata, e sembra che il tempo la stia sgretolando. Al centro della piramide c’è una scala che arriva fino in cima e in mezzo corre una corda per aiutare nella salita.
Lascio la bici e comincio a salire, faccio qualche gradino mettendo bene i piedi e mi accorgo che è una salita davvero ripida. I gradini sono molto stretti e ho quasi le vertigini a guardare giù.
Ma c’è tanta gente che sale con me, allora scherziamo insieme sull’altezza e con tenacia, con il sole completamente allo scoperto, ora, e il sudore che ci cola dalla fronte continuiamo a salire.
Infine, sono lassù e, improvvisamente, ovunque io guardi, in ogni parte dell’orizzonte c’è solo giungla, una distesa smisurata di verde fino all’estremità delle terre dello Yucatan, fino agli oceani, fino alla fine del mondo.
Mi siedo in mezzo agli altri, nel silenzio.
Questa strada ha un cuore.
A ogni gradino ho lasciato dietro di me una zavorra inutile, ogni forma d’illusione, ogni mezzo di distrazione e adesso riesco a sentire la mia libertà.
Siedo in cima alla piramide per molto tempo, per tutto il tempo di cui sembra aver bisogno la mia mente per tornare a una visione limpida e così semplice, in fondo, delle cose che dovrei fare per ritornare davvero a me stessa. Solo a quel punto scendo e riprendo la via del ritorno.
A Tulum, in albergo, decido di parlare subito con il direttore e gli spiego la situazione.
– Nessun problema, signora. Le faccio portare le sue cose nell’altro hotel. Non dovrà neanche vederlo.
Nella fretta di uscire, per timore che Marcello si materializzi proprio mentre lo sto piantando, noto due vecchi che mi osservano dalla veranda all’aperto di fianco alla hall. Qualcosa nel loro atteggiamento mi spinge, appena fuori, a girare di lato alla porta principale e fermarmi dietro ai tendoni bianchi che si gonfiano al vento. Sono solo due vecchi seduti a un tavolo che parlano e ridono.
– È la donna del biglietto? – Chiede uno.
– Sì, – risponde l’altro.
– E dove l’hai mandata, questa?
– A Cobá, ai templi. È stato facile, era quasi pronta.
– E, si è trovata, vero?
– Oh, sì! – ride – si trovano tutti, basta spingerli a cambiare strada, per un po’.
E mentre pronuncia queste parole, un colpo di vento scosta il tendone dove mi sono nascosta e riconosco il vecchio messicano.
Lui mi guarda e mi sorride con quello strano bagliore nel suo sguardo d’argento.



[1] Castaneda Carlos, A scuola dallo stregone. BUR. 2013, pag.83 edizione Kindle


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