Pubblicato il 28/04/2023 18:05:53
IRONIA
Stamattina, mentre andavo in Facoltà, mi sono imbattuto in uno sparuto gruppo di goliardi che, saltellando guardinghi lungo la via, ne pronunciavano scompostamente e sguaiatamente il nome: “Largo Trombetti, Largo Tromboni, Largo Trombon…” Mi ha assalito un po’ di tristezza constatando che al posto della feluca indossavano il fez nero, su cui avevano applicato ognuno una striscia di colore diverso. Si guardavano intorno per timore di incrociare la milizia, ma, allo stesso tempo, apparivano risoluti. Ho provato nostalgia per quei berretti, oggi caduti in disuso per ordine del regime: mi fanno venire in mente i lunghi becchi degli uccelli e il Medioevo che amo. Di colpo, mi è balzata davanti agli occhi l’immagine della mia “matta brigata” e soprattutto la faccia di Guido che andava in sollucchero per le sfide e gli scherzi. Ho pensato che se gli piaceva Torino, gli sarebbe piaciuta anche Bologna, se non altro per i portici, ma la Bologna di quarant'anni fa, non quella di adesso perché, nonostante il carattere reattivo degli abitanti, si avverte molta tensione, soprattutto dopo l’attentato al Duce. Allora, cioè alla fine del secolo scorso, ci incontravamo nelle aule dell’Ateneo torinese, al caffè Cavour e sul lungo Po. Ci scambiavamo impressioni e pareri sui nuovi orientamenti. C’era fermento di idee, attesa di svolte. Guido aveva un fare elegante e garbato ma faceva intuire la sua propensione all’ironia e alla teatralità. Non di rado se ne usciva con battute che divertivano l’amico Carlo, il quale gli chiedeva se avesse imparato quelle allusioni e quello scherzare in campagna, al Meleto, dove spesso soggiornava. Lui faceva lo sguardo di chi la sa lunga e non gli rispondeva. Di Guido ho un ricordo nitido che spesso richiamo alla memoria. A volte si alzava in piedi scostando una sedia del tavolo intorno al quale eravamo seduti, o balzava inatteso da un sedile improvvisato: agitava il bastone e lo puntava verso l’alto, recitando dei versi con enfasi come, forse, aveva imparato dalla madre. Credo che fosse un modo per esorcizzare la paura che portava dentro, paura per la sua situazione, ma quell’antidoto, pensavo, serviva anche per altro. Scherzava molto. Come Vallini, come Chiaves, diceva che il mondo sarebbe stato noioso senza ironia, che non avrebbe mai potuto concepire un mondo triste e piangente. Non avrebbe mai detto: “Io non sono che un piccolo fanciullo che piange”, non solo perché era nato dannunziano ma anche e soprattutto perché, se lo avesse detto, si sarebbe sentito troppo infelice. Penso che avesse una percezione tremenda del mondo, per quell’aridità di sentimenti così palese e per quell’arroganza che facevano sentire, in particolare i poeti e gli artisti, estraniati e vittime. Quindi la maschera del linguaggio, con cui rivestiva il suo modo di essere e la sua poesia, era la sua vera forza.
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