Pubblicato il 07/04/2023 12:14:41
Una seconda possibilità Piove ancora. Le valli corrono fianco a fianco, si sovrappongono in morbide volute, poi diventano campi di pianura che si dilatano fino al nulla. Il verde racconta almeno cento sfumature diverse e le spighe d’orzo si flettono sotto la forza dell’acquazzone estivo. Meglio piegarsi che spezzarsi per sempre. Spezzarsi mai. E, in mezzo a valli che accolgono pianure, e a pianure che cullano spighe d’orzo, e a spighe d’orzo a capo chino si insinua questa strada tortuosa via dal mondo. Sopra a questa strada passa un’auto che sussulta, e nell’auto ci sono io. Ho trent’anni, mi chiamo Irene e a guidarmi, in questo pomeriggio lucido di pioggia, non ho altro che un foglio pieno d'indicazioni. E un’ipotesi. Non so aspettare. E non so lasciare che le cose accadano. Come quel 26 ottobre 1973, quando il giudice era uscito di casa per andare al lavoro. Durante la notte avevo posizionato l’esplosivo sotto alla sua macchina e mi ero nascosta nel furgone parcheggiato vicino. Avevo atteso il giorno con i sensi all’erta, spiando da dietro il finestrino ogni singolo movimento. Quando la mattina l’uomo era uscito dal portone, con qualche minuto di anticipo, aveva esitato un attimo sulla soglia, si era voltato indietro, si era chinato a prendere qualcosa. Ma non era una cosa. Quella mattina, avrebbe accompagnato sua figlia a scuola. Una bambina con un cappottino azzurro, la treccia lunga che ondeggiava fuori dal colletto. Il cuore aveva cominciato a martellarmi nelle tempie. E, mentre avevano preso a scendere i gradini del palazzo, mi ero buttata fuori dal furgone, ero corsa verso di loro. L’uomo aveva stretto istintivamente a sé la bambina. – Rientrate in casa, – avevo detto. Non sapevo che altro dire. Era tutto sbagliato. – Che cosa vuole? Chi è lei? – Non ha importanza, la prego, rientrate in casa. Avevo guardato l’orologio, eravamo a metà della scalinata, troppo vicini all’auto e l’uomo continuava a fissarmi. Allora gli avevo strappato la bambina dall’abbraccio, mi ero gettata a terra con lei per farle scudo con il mio corpo. Era stato in quel momento che la bomba era esplosa in un boato mostruoso. All’improvviso la città era sveglia. Il portone della casa si era spalancato allora mi ero rialzata, avevo sollevato la bambina e l’avevo affidata alla donna che era apparsa sulla soglia. L’uomo, sulle scale, non c’era più. La donna era rimasta immobile sulla porta e la bambina, ora fra le sue braccia, mi fissava con una tale intensità che forse non mi avrebbe più dimenticata. Ma non c’era tempo. Avevo scosso la donna. – Chiami subito un’ambulanza. – Il giudice… – la donna era sotto choc, la sua voce esitava. – Chiami – subito – un’ambulanza, – avevo ripetuto. Poi, avevo sceso i gradini fino alla fine della balaustra e finalmente avevo visto il giudice riverso a terra, di lato. Mi ero chinata su di lui, respirava e aveva gli occhi aperti, con un po’ di fortuna se la sarebbe cavata solo con qualche contusione allora, sotto al severo tocco lento di una campana vicina, mi ero rialzata e con passo normale avevo raggiunto il furgone. Guidando con una calma esasperante mi ero allontanata nell’intrico delle vie strette, uscendo dalla parte opposta del quartiere. Vicino alla stazione della metropolitana c’era un parcheggio di pendolari che verso sera si svuotava. Un buon posto per abbandonare il furgone. Rubato qualche giorno prima, l’ordine era stato di portarlo in un luogo isolato e bruciarlo. Invece, avevo usato la tanica di benzina su uno straccio e avevo cercato di pulire ovunque avessi toccato. Avevo raggiunto a piedi la stazione e fatto perdere le mie tracce. Se qualcuno mi avesse notata, avrebbe ricordato soltanto una donna. Lunghissimi capelli neri. Non so aspettare. Il mio istinto è più saggio della mia ragione. Quel giorno nessuno era morto perché dentro di me una forza più grande di qualsiasi motivazione non aveva permesso che succedesse. Forse le ragioni della mia lotta non erano solide o forse non ne accettavo le modalità. Non lo sapevo ancora. Sapevo solo che era tutto sbagliato. Che le idee non esplodono e non dilaniano. Ero a Dublino da due anni e avevo appreso dai giornali che le indagini sul fallito attentato erano state accantonate per fatti di sangue più gravi, che due dei miei complici erano stati arrestati. Sentivo l’inferno grattare la terra sotto ai miei passi e, quando avesse scalzato l’ultima zolla, mi avrebbe afferrata con i suoi artigli di fuoco e mi avrebbe trascinata con sé. La vecchia cellula a cui appartenevo non mi avrebbe lasciata andare e presto, anche una pedina come me, avrebbe potuto essere giocata. Certe scelte non prevedono uscite laterali. Per questo ho bisogno del Professore. La pioggia ritmica tamburella sul tettuccio della Dyane gialla e io guardo le indicazioni sul foglio, so di non essere lontana. Scorgo un viottolo di campagna, un sentiero d’ingresso. Una luce in lontananza, una casa. Un uomo cammina avanti e indietro con un poncho da pescatore, scrutando intorno. Poi mi vede. Avevo conosciuto il Professore mentre preparavo la mia tesi di laurea in letteratura inglese. Lui era in Italia per una serie di conferenze. Era diverso da chiunque altro. Le sue idee anticonvenzionali e il suo attivismo politico lo rendevano un professore molto ammirato dai giovani. Una rarità, di quei tempi. E forse fu questo a renderlo attaccabile, a definire la sua aura di cattivo maestro. Scendo dall’auto e lui mi viene incontro con un ombrello. Ci abbracciamo goffamente, ci guardiamo, è invecchiato, la sua barba un tempo curata e tenuta corta ora è lunga e bianca. Sono passati solo sei anni ma i miei ricordi mi sembrano appartenere alla vita di qualcun altro. – Entriamo in casa, vieni. In cucina c’è profumo forte di caffè. – Siediti, fatti guardare, – dice. Mi tende le mani dalla sua parte del tavolo. – E così, hanno cercato di sporcare anche te. Ha mani da contadino grandi e calde e io mi sento improvvisamente in pace. Ma nessuno ha cercato di sporcarmi. – L’ho deciso da sola, in base a premesse distorte e malate. Il Professore annuisce, nei suoi occhi leggo il mio stesso tormento. Si alza, prepara due tazze di caffè. – Nel mio ho messo due dita di whisky, ne vuoi anche tu? – Sì, per favore. – Quelli arrestati, facevano parte della tua cellula? – Sì. Hanno sparato a un giornalista. – E adesso potresti essere merce di scambio. – Ma, in definitiva, io ho avuto un ruolo minore, non ho ucciso nessuno e non conosco le menti dell’organizzazione. Che cosa otterrebbero da me? – In carcere si ragiona diversamente. Potrebbero fare il tuo nome per depistare, guadagnare tempo incolpandoti di altri delitti, forse ottenere un trattamento privilegiato, uno sconto di pena. – Che cosa devo fare? Il Professore si alza e va verso la porta che è rimasta tutto il tempo aperta, guarda fuori, osserva il cielo. – Vieni, Irene, non piove più. È quasi sera, ma c’è ancora tanta di quella luce sopra alla vallata, ora che il cielo è pulito, che s’indovina il principio del mare in lontananza. Ci sediamo sulla panchina sotto alla veranda, respiriamo il profumo della terra bagnata. Il Professore non ha risposto alla mia domanda. È assorto nei suoi pensieri, scruta l’orizzonte. Forse pensa alla vita che ha lasciato, ai suoi studenti, alle città in guerra, alla sua libertà da escluso fra queste terre d’Irlanda, a un piano per salvarmi. Ha ancora alcuni amici dalla sua parte. – Ecco quello che faremo, – dice, rompendo il silenzio. Quando conclude, restiamo muti ad attendere la notte in cima a questo giorno che non vuole finire. Torno a Dublino, tengo le mie lezioni, mangio, fumo, dormo, leggo, cammino, vivo come se il momento non dovesse arrivare mai. Quando ricevo l’invito formale della polizia giudiziaria a fornire informazioni sono quasi sorpresa. Parto per Roma e appena arrivo mi presento in tribunale. C’è un pubblico ministero della sezione penale ad attendermi. Due poliziotti rimangono a distanza, dietro di me. – Vorrei farle qualche domanda, – dice. – Certo. – Dove si trovava durante la notte e la mattina del 26 ottobre 1973? Questo è il nodo. – In quel periodo mi trovavo sicuramente in Irlanda. C’è una piccola incrinatura nella sua impassibilità. – Perché? – chiedo. – Una persona in carcere ci ha raccontato una storia su di lei. – Una storia su di me? – Lei, durante l’ottobre del 1973, non era assistente di letteratura comparata all’Università di Roma? – No, l’estate precedente presentai la mia candidatura in un paio di università irlandesi, di cui avevo sentito parlare. Appena ebbi parere positivo da Dublino, mi trasferii lì. L’incrinatura sul suo volto si allarga, ma non è un uomo che molli facilmente. – Lei stipulò un contratto di affitto in quella città il 27 di ottobre, e iniziò a tenere le sue lezioni il 15 di Novembre di quell’anno. È corretto? – Credo di sì, dovrei controllare. – L’abbiamo fatto noi. Ora è molto più rilassato. Prendi un respiro. – Però io sono arrivata a Dublino all’inizio di ottobre e ho alloggiato in un albergo, in attesa di trovare una sistemazione più comoda. Potete verificare. L’incrinatura è riapparsa e si è allargata, adesso sarebbe evidente a chiunque. – Allora, le chiedo gentilmente di fornire i documenti al mio ufficio quanto prima. – Certamente, – rispondo – ora posso andare? – Ci sarebbe un’ultima cosa, – fa una pausa d’effetto, studiando la mia reazione. – Mi dica. – Sarebbe disponibile per un confronto? Calma, Irene. È una forzatura, ma l’avete prevista. – Ma, certo. Quando? – Ora, se non le dispiace. – Mi dica cosa devo fare. – Le spiegherò tutto andando di sotto. So quello che mi aspetta. Una decina di donne è in fila davanti a un lungo vetro a specchio. Un agente mi fa posizionare al centro. Allora tolgo l’elastico e passo le dita fra i capelli, come il Professore mi ha chiesto di fare. Sciolti sembreranno ancora più biondi. Nello specchio vedo riflessi il mio volto e i volti di quelle donne, così diverse da me. Dopo alcuni, interminabili minuti mi fanno uscire. Il pubblico ministero mi aspetta fuori dalla stanza, ha uno sguardo che non mi piace. Mi hanno riconosciuta. Invece, dice: – Ora può andare. Non mi hanno riconosciuta. – Ho finito? Posso tornare a casa? – È tutto, – risponde, – vada per la sua strada, e cerchi di non tornare più. È un uomo forte, sa rinunciare alle sue convinzioni senza sentirsi vinto e le sue parole riescono comunque a suonare come una sentenza. Recupero la mia borsa e mentre cerco la strada per le scale che prima ho sceso con lui, trovo un ascensore che non avevo visto. La porta sta per chiudersi ma qualcuno da dentro la trattiene e mi fa entrare. – A che piano? – chiede una voce. – Pianterreno, – rispondo e quando mi volto davanti a me ci sono il giudice e la bambina. Dunque dietro allo specchio c’erano proprio loro. La bambina è cresciuta, sembra una piccola donna in miniatura, i suoi capelli sono più corti, i suoi occhi mi scrutano seri. Cerco dentro di me la forza di sorriderle, come farebbe una qualsiasi sconosciuta, di dimenticare di averla già vista. Lei mi restituisce un sorriso timido, si stringe al padre. Allora il mio sguardo sale verso di lui ed entrambi rimaniamo a fissarci in silenzio in questa ascesa infinita verso la libertà. Però, a poco a poco i suoi occhi diventano lucidi e tutta la compostezza e la freddezza che mi ero imposta crollano a terra come un fragile castello di carte. L’ascensore è arrivato al piano e le porte cominciano ad aprirsi, con lo sguardo cerco una via d’uscita nello spiraglio di luce fra le porte di metallo, ma l’apertura è dolorosamente lenta e allora lo affronto, affronto il suo sguardo di uomo salvato, di padre salvato da un orrore troppo grande e mi sento nulla davanti a lui. Lui si avvicina e mi stringe il braccio, – Grazie, – dice, quasi in un sussurro, poi usciamo fuori nella luce tutta nuova del mondo.
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