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L’età più felice

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 22/01/2023 16:42:32

L’ETĀ PIÙ FELICE

Francesco Maria aveva sempre gioito intimamente per essere venuto al mondo esattamente cento anni dopo la nascita di Giovanni Pascoli.
Fin da bambino, aveva respirato il senso di familiarità con il poeta, familiarità trasmessagli dalla madre e dalla zia che parlavano di Pascoli come se fosse un parente.
In Pascoli vedeva, respirava la campagna e il mondo della campagna era il suo mondo: quel mondo primigenio che gli aveva regalato colori e sapori inalienabili.
La campagna era zolla dura, distesa verde, e poi granaio e cantina. Ricchezza e bellezza. Libertà e dominio.
La campagna era Virgilio e Orazio, Verga, Tolstoj e Pavese. E Pascoli.
Come Tolstoj sentiva di amare i contadini.
Da piccolo aveva coltivato per un contadino, che lavorava la terra dello zio materno, un sentimento d’affetto, rivolto a una realtà fatta di parole essenziali, calore e ruvidezza. E attrazione per il passato dell’uomo che era sopravvissuto alla campagna di Russia e che, forse, durante gli assalti aveva ucciso.
Nelle giornate brumose, lo seguiva mentre zappava la terra e si fermava di tanto in tanto per sputare la saliva sui palmi. L’uomo canticchiava delle piccole filastrocche, talvolta dal contenuto osceno, che si ficcavano nella testa del bambino come schegge permanenti.
Nel tempo, il legame con la campagna era rimasto fisso. La trebbiatura sull’aia, l’uccisione del maiale, la semina e l’aratura erano riti sacrali che scandivano le fasi dell’anno, cicli dell’esistenza.
Gli umori del terreno asciutto e bagnato, il guizzare dei ranocchi nei fossi, le avellane sparpagliate sotto la siepe di biancospino rappresentavano l’alveo in cui Francesco Maria si era disteso e in cui voleva rimanere.
Era fonte di esaltazione e conferma che il poeta della sua terra avesse cantato la vita della campagna e gli elementi della natura con tutta la loro carica simbolica ed evocativa. Tanto più che il verde argenteo dei pioppi, il giallo accecante del grano, il rosso carne delle bestie macellate andavano a comporre i soggetti pittorici delle tele paterne, ispirate agli impressionisti.
In cuor suo sapeva che non avrebbe mai lasciato la casa di campagna.
La cugina, invece, che abitava a pochi metri di distanza, aveva vocazioni diverse. Forse perché oppressa dalle coercizioni del padre, votato alla assoluta difesa del possesso di quei beni, o forse per naturali esigenze caratteriali, voleva esplorare orizzonti nuovi, convinta che ne esistessero di più interessanti, e, forse, da sempre intenzionata a stabilirsi altrove.
-Subirai l’espiazione dello zingaro- le diceva Francesco Maria scherzando- tu sogni il mondo borghese.
-Non coltivo l’ideale dell’ostrica- gli rispondeva, pure con tono scherzoso, lei di rimando.
Infatti, la cugina lasciò la casa paterna per motivi di lavoro trovando la sua definitività da un'altra parte.
“Io, la mia patria or è dove si vive, gli altri son poco lungi in cimitero” recitò un giorno, dopo la morte dei genitori.
Purtroppo, per un avverso gioco del destino, la casa natale della cugina, quella casa in cui Francesco Maria aveva trascorso i primi quattordici anni della sua vita, andò a fuoco a opera di ignoti e ciò rappresentò per lei “l’espiazione dello zingaro”.
La cugina pianse lacrime amare e anche Francesco Maria che, per radicato spirito di conservazione, si offrì di riparare, a una cifra di simbolica compravendita, il locus amoenus della sua infanzia.
Se avesse lasciato che le sue radici venissero recise e che qualche cuculo ozioso avesse preso possesso della dimora nido materno, trasformandola, non se lo sarebbe mai perdonato.
Lì, tra l’argenteo dei pioppi, avrebbe potuto rivedere la trebbiatura sull’aia, il guizzare dei ranocchi nei fossi, il volo degli stormi ad alta quota, la zappa del contadino ricadere sulle zolle dure.
Lì si sarebbe specchiato e avrebbe ritrovato se stesso nei muti testimoni della sua età più felice: i gelsi centenari, la facciata vetusta, la carrucola arrugginita del pozzo.


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