Tiziana Gozzellino, Note critiche sulla poesia di Alfredo Rienzi, in Antologia Versi d’autore 2016 – Centro Studi Cultura e Società, Torino, giugno 2016, pp. 98-104.
La poesia di Alfredo Rienzi è una poesia colta e raffinata, delicatamente potente per linguaggio e immagini, percorsa, come già altre voci critiche hanno magistralmente rimarcato, da versi musicali, evocativi, quasi rituali, incantatori, carichi delle suggestioni che erano proprie dei canti antichi, e che pur tanto si adattano al presente.
È una poesia intessuta di rimandi culturali variegati, rari, segreti, grazie ai quali i suoi componimenti si popolano di nomi/personaggi, quasi nello stile di una nota Antologia, ma qui con più ampio intento, come a voler rappresentare un’umanità che abbraccia tutti i luoghi e tutti i tempi; a voler rappresentare, anzi, dietro quelle maschere, frammenti di sentire e di pensiero che formano, uno dopo l’altro, uno con l’altro, una coscienza universale.
Così quello che Alfredo Rienzi descrive è un paesaggio per lo più mentale, onirico, nel quale uomo e natura si con-fondono, tanto che gli sguardi si fanno “paludosi” e “mani di rugiada” lavano un fango che altrove si mischia al sangue in un rito di oscenità e brutalità, a raccontare la storia di violenza che soggiace a tutte le storie e che solo un’imprevista bellezza – quella di un volto, di uno sguardo, delle piccole cose – riesce a contrastare.
Sono particolari lievi, così apparentemente irrilevanti – alla stregua di un “petalo cadente di magnolia” – a influenzare il corso degli eventi, a condensare in sé il senso vaporoso della vita, a dissolvere per un attimo il peso del vivere, cui gli uomini si arrendono, silenziando il pianto, precipitando.
E nel mondo di Rienzi si precipita con “inudibile suono”, perché si vive in un luogo straniante, seppur familiare: con suoni come soffi e colori come vento, odori incoerenti e impertinenti, ombre infastidite da fragili luci; con “fiori come neve” e “frutti come sangue”. Un luogo popolato da “soldati muti” e carcerieri invecchiati e stanchi, dove tutto è in divenire; dove, per alchimia o semplice inganno, un flusso – come di coscienza – annunciato profeticamente dal “fiume scorre senza fine tra me e voi in me” di Pessoa - confonde i termini e i ruoli, trasmuta gli elementi gli uni negli altri, azzera gli opposti, annulla i confini tra il sé e l’altro: l’ingannatore è ingannato, il vincitore è vinto (dall’indifferenza); il carceriere ha lo stesso fiato del prigioniero, e la condanna, da un lato o dall’altro delle sbarre, è reciproca; e, intanto, ognuno di noi ha mani di vittima e carnefice. Di ciò ci parla[va già – ndr], potentemente, la poesia La questione del nibbio [nel precedente volume Custodi ed invasori - ndr]. Di quel sovrapporsi, di quello scambiarsi di ruoli tra prede e predatori, vittime e carnefici, appunto, che occasioni (inaspettate?), alleanze (insospettabili?) sollecitano, in un irresistibile quanto compromesso impulso di dare per avere, in uno spasmodico anelito di volo che vorrebbe rinnegare la terrena appartenenza. Ma l’appartenenza terrena è imprescindibile. E si fa via via più ardua, poiché netta è ormai la distanza tra uomini e dei, e spezzato è il filo delle parole da scambiare. Restano, agli uomini, messaggi indecifrati, e, in luogo di parole negate, una sterile natura, spietata, a far da sfondo al dolore e all’assenza, alla profanazione, a un indistinto susseguirsi di giorni. Ma l’amore non è rinsecchito, come parrebbe; è sommesso ma più forte che mai, e ruba alla natura piccoli nomi e piccole immagini, in un’estrema ricerca di purezza. In un’attesa – frustrata – di neve, come Rienzi scriveva in Lettera d’agosto [ne La parola postuma, 2011 – ndr ].
Ed è l’amore, infatti, il tramite di un senso – l’unico possibile – scorto in vita ed inseguito oltre il confine; il tramite di una fede che riscatta la bellezza, accoglie il passaggio e si abbandona all’abbraccio ultimo, così come Alfredo Rienzi ha provato ad immaginarlo nella poesia
Vincent B. sceglie una fotografia per il corredo funerario:
È quella in cui sei tu nel campo di grano ancora verde
e il delirio di papaveri che canta il canto dell’indomata silfide
per tutte le creature visibili e invisibili nel cielo
che scende fin sulle cime dei pioppi
lo so, l’immagine è venuta un po’ sfocata
e sovraesposta quanto basta a credere che sia d’un altro luogo
dove la terra e la materia poco a poco si diradano
e il fuoco può passare oltre la pelle senza bruciare e diventare sangue
tu sei di lato e guardi in una direzione dove s’abbracciano
la vita e la resurrezione
e mostri il profilo e la sua bellezza di collina
e un’incisura che accenna ad un sorriso senza causa
riponila il giorno del passaggio vicino alla mia mano destra
che possa nei primi passi oltre il confine mostrarla ai custodi del cammino
e chiedere di aspettarti anche in quell’Oltre.
Enigmatica, ermetica, la poesia di Rienzi vorrebbe trovare e accogliere una parola semplice, rassicurante, per dipanare i misteriosi grovigli che affliggono, complicano, appesantiscono le vicende umane. Mentre così facile sarebbe lasciarsi accarezzare da quelle ‘mani di rugiada’; riempirsi gli occhi di melograni e magnolie, nutrirsi di ‘more, foglie di eucalipti e aghi di pino’, dormire ‘il sonno dei bambini’, eternamente bisbigliare, come amanti.Così facile, e impossibile.
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