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Un’estate qui capitolo I

di Stefano Saccinto
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Pubblicato il 26/01/2010 20:23:21

Scrissi, da qualche parte: Un buon Cobain è sempre meglio di tutto quello che circola oggi per il mondo. Infilai la cassetta nello stereo, sdraiato nella mia Panda grigia, nel torrido pomeriggio di inizio estate, senza pensare alla scuola, senza pensare alla vita, dimenticando le ingiustizie sociali appena filtrate dalla voce penetrante del leggendario Jack Folla. Pensai: ‘In questo pomeriggio non esistiamo nient’altro che io e il tempo’. Io nel tempo. Dove finirò quando gli archivi saranno completi, quale sarà la fetta di tempo su cui dovrai cliccare per trovarmi? Ed in quali campi della vita e chi sarà questo Stefano morto di sonno in un pomeriggio estivo che adesso abbassa lo schienale del sedile dell’auto, si sfila una scarpa, pianta un piede sul parabrezza e alza il volume dello stereo, ascoltando il Cobain sempre meglio di tutta la merda che circola oggi per il mondo? Quell’estate ero all’estremo di tutto e fu davvero il periodo dell’apologia dell’ozio. Continuavo a vagare tra un letto (morbide fresche lenzuola in cui non riuscivo più neanche a trovare posizioni comode e ci restavo e ci restavo fino a che non avevo esercitato pose da contorsionista per raggiungere fette ancora fresche dello spazio concessomi), una sedia, un pavimento ed uno stereo: lo accendevo, mettevo su un disco e mi aveva già stancato, lasciavo andare la radio e Cobain restava sempre meglio di tutto. Cercavo di organizzare lo sciame caotico delle idee che non smettevano di ossessionarmi. Pensavo che avessero tutto il potenziale per rendermi un grande pensatore. Cominciavo a fare ordine tra i concetti, cercavo di risalirne alla fonte, seguivo piccoli spiragli di fievoli luci, ma in conclusione primeggiava la mia suprema pigrizia e finiva che, presto, tragicamente, tornavo ad incartarmi e non avevo la forza di affrontare nemmeno uno di quegli intricatissimi labirinti mentali. Cosicché, vinto dalla noia, decidevo di rimandare, come sempre, ad un indefinito momento futuro, l’inizio della costruzione di un me stesso migliore. Non avevo un lavoro, l’Università mi aveva riempito le palle e la testa di falsi ideali pseudo-socialisti e spinto la mia indole anarchica all’idiosincrasia sistematica. Già il calcio e la mia presunta fede si erano rivelati fallaci anni prima, quando, nella stessa giornata in cui l’Italia usciva fuori dai mondiali del 1998 giocati in Francia, un bambino di appena due anni moriva nell’impietosa grazia di un dio assente o impotente e quindi tutto il mondo di passioni calcistiche e urla rivolte alla televisione e a quei ventidue coglioni che si ammazzavano rincorrendo un pallone, era crollato in un colpo ed ero rimasto fermo, nella mattina di luglio, a contemplare il mondo in una sorta di giardino chiedendomi: ‘Dio, dove andrò se non c’è via di scampo?’ Pensai di stendere un manuale di filosofia per razionalizzare le mie confuse teorie ed in verità continuavo a dirmi ‘Lo scriverò, lo scriverò’, ma poi non cominciavo mai. Le maledette idee erano sfuggenti o forse ero io che non mi mettevo d’impegno a catturarle. O peggio ancora, non ne ero capace. Immaginavo gli illustri filosofi morti, i signori Kant, Hegel, Fichte, Schopenhauer, Nietzsche, che ancora perseveravano nelle loro speculazioni e organizzavano perfino, nell’oltretomba, incontri tra di loro disquisendo animatamente sulle più elevate vette del pensiero umano. Mi rendevo conto che con essi, io, non avevo nulla in comune. Nulla di tedesco e del carattere tedesco che tanto aveva dato alla filosofia, al punto che mi convinsi che nessuno avrebbe mai accettato il mio trattato come filosofico già solo per il fatto che, accidentalmente, non ero nato in Germania. Mi stavo perdendo nelle mani di quegli slanci e delle maledette repentine rassegnazioni, la cui conseguente frustrazione riuscivo a sopraffare solo col drammatico e spudorato stupro della mia essenza. A forza di violentarla l’avevo destrutturata del tutto e adesso fluttuava come un insieme di quadratini senza connessioni in un luogo indefinito della mia coscienza. Mi passai le mani nei capelli, inorridii al pensiero di non essere più al sicuro neppure all’interno della mia mente. Dio, dove andrò se davvero non c’è via di scampo? Avevo un paio di pantaloncini corti ed una maglietta a fiori e questa era la realtà ed io l’avevo sempre conosciuta, quindi avrei dovuto comprenderla. Era reale il mio corpo nascosto da quegli indumenti nell’afa di inizio estate e reale tutto quello che i miei occhi potevano vedere, spostandosi come microcamere sul mondo. Allora perché, a parte me stesso in alcuni momenti, continuavo a credere irreale tutto il resto? La realtà proponeva feedback molto poco soddisfacenti, o meglio, reagiva alle mie interazioni in maniera decisamente caotica anche quando orchestravo al meglio le parole che, per il resto del tempo, vagavano impazzite all’interno della mia testa e così mi accontentavo di non fare niente, stando seduto nella mia macchina e cocendomi nell’immenso volume dell’impatto solare, valutando quale livello di resistenza la mia pelle potesse raggiungere e se prima o poi mi sarei squagliato come un gelato o se piuttosto sarebbero stati prima i miei pensieri ad evaporare finalmente. Il caldo era di quelli così opprimenti da pareggiare ogni cosa: bene e male, vita e morte, amore e odio. Tutto ciò che era stato agli antipodi nella concezione di Eraclito, tendeva a sciogliersi ed a fondersi al punto che cominciavo a comprendere perché ogni cosa fosse così strettamente legata al suo opposto. Poi fumavo una sigaretta e mi sentivo poco coerente. Pensavo di darmi all’onanismo ma mi sentivo mancare le forze. Forse avrei riempito di parolacce la prima persona ignara passante per la strada. Poi le avrei detto ‘Ehi, fottuta presuntuosa presenza che diventerà un fantasma appena il tempo l’avrà stesa, vieni qui! Lo sai che velleità significa credere di aver vissuto? Tu che cosa fai? Ho il senso della vita sulla punta della lingua della mente, ma non riesco a pronunciarlo e tu te ne vai girando, incosciente di tutto, sotto questo sole disintegratore?’. L’avrei presa per capelli e avrei urlato ‘Sveglia!’. O le avrei urlato ‘Svegliami!’. Ma quando la prima figura, tremula nel filtro dell’afa, al seguito del suo cane al pascolo, apparve da lontano, aprii la bocca, inspirai e tutto ciò che avevo da inveirle contro si deformò in uno stanco rantolo. Le mosche giocavano a sfidare la mia paralisi compiendo arcuati voli intorno alle labbra, una quasi mi entrò in bocca ed il ribrezzo mi fece finalmente sussultare. Ebbi la forza di mettere mano al cambio, mano alle chiavi e mani al volante. Accesi la macchina che friggeva nell’aria da forno e mi avviai osservando come l’asfalto si stendesse a rattoppi davanti ai miei occhi. Presi a percorrere la strada cercando di salvarmi, conducendomi in un luogo più fresco, più vivibile. Non so se riuscii a trovarlo, ma se accadde, non ebbi voglia di fermarmi. Che cosa avrei potuto fare in quel luogo, io, immerso nella solitudine? Nonostante tutto, ad un certo punto frenai, spensi la macchina e ne discesi, deciso ad affrontare l’inferno di fuoco. Andai a sdraiarmi a pancia in su oltre il ciglio della strada. Pensai che avevo sete, ma trovare dell’acqua in quel momento contravveniva all’unico progetto che mi parve degno di considerazione: stare fermo senza fare niente, cercando di azzerare ogni pensiero. Tentare di capire era quello che mi faceva più male, ma non riuscivo a desistere, come se sperassi di trovare qualcosa di grande in quel maledetto cercare. E invece non c’era nulla, alla fine sarebbe stato meglio non fare niente, non essere da nessuna parte e di nessuna idea. L’unica soddisfazione, forse, era quella di poter dire a me stesso ‘Non ci ho capito un cazzo’, l’unica gioia che non poteva essermi tolta. ‘Tanto nessuno pensa per davvero, nessuno fa niente e quindi perché dovrei fare qualcosa io?’. Ecco che mi giustificavo senza averci compreso nulla per primo, non era giusto, ma è la folle vita che tenta sempre di ammaliarci con la sua complessità ed alla fine il bello sta proprio, sì, forse, nel fatto di poter dire ‘Non ci ho capito un cazzo!’. Riflettei sul fatto che della vita noi siamo schiavi e succubi, lo siamo anche parlando a noi stessi, padrona di tutto è la mente, regina delle azioni, giuste o sbagliate che siano, e non possiamo neanche liberarcene perché senza di lei non saremmo nemmeno schiavi, non saremmo e basta. Con che coscienza possiamo parlare della libertà? L’universo è un nulla in cui positivo e negativo si equivalgono, ammesso che noi possiamo dirci il lato positivo di qualcosa di negativo, non è forse come se non fossimo ed in definitiva non siamo? E ci incazziamo se quei ventidue coglioni in mutande giocano una partita inutile! E ci mettiamo a piangere se le nostre aspettative non si realizzano, speriamo nel futuro e critichiamo il passato, cerchiamo di credere in dio, ci facciamo belli, rassodiamo il seno, ma alla fine siamo tutti proiettati verso il nulla senza volerlo ammettere perché a questo punto niente poi varrebbe niente; quel che è certo è che abbiamo bisogno di credere in qualcosa altrimenti vivere non avrebbe senso. Forse vivere non ha senso. Però non mi va neanche di morire, quindi se ne parla un’altra volta. Dopotutto non sono riuscito ancora a scegliere tra bene e male, se scegliere è ciò che per davvero un uomo è destinato a fare. Ho bisogno di grande libertà, come la libertà di quando sei al bagno, nessuno che possa assalirti improvvisamente e tu puoi fare tutto quello che vuoi, nudo o vestito male, non sussiste il problema della morale e non c’è bisogno di giustificare niente. Ho bisogno della libertà, non cerco la bellezza ideale, leggo i libri a metà partendo dal centro e poi, quando sono esausto, mi torturo con un’altra lettura e non è la sensazione di fare qualcosa, ma una mia pazzia, solo mia, ho il diritto di essere folle e di meritarmi lo stesso un pezzo di pane per vivere. Poi faccio crollare tutto. È meglio stare fermi per non rischiare di farsi male, non per paura, ma per il fastidio che può dare e certo è meglio non avere fastidi perché sono alquanto noiosi e la noia è infernale, ma l’inferno è tutto da affrontare e per farlo ci vuole grande energia e quindi sopraggiunge la stanchezza, la volontà di trovare un nuovo letto o un qualunque giaciglio in cui riposare, come la mia macchina. Accendo la radio, vado via, ne esco, mi sdraio ai bordi della strada e mi sento urlare: ‘Oh, guarda, quello è ai bordi della strada, dio, forse significherà qualche cosa!’ Essere lucidi alla fine serve a poco, perché cammini e cammini senza arrivare da nessuna parte e ciò che esiste di più bello, sono quelle emozioni piene di vento e confusione, quelle che non riesci a definire, che non hai impacchettato, inafferrabili. Beh, credo che le strade siano sempre affascinanti, alla fine, credo che… no, sbagliavo, certo, ho solo creduto di credere. Tutto rischia l’abbandono e niente e nessuno è pronto ad affrontarlo, perché è così impalpabile quel sottile interesse che ci mantiene fermi sul confine, che basta un nulla per arrivare alla conclusiva concezione che forse la mobilità nella vita è ciò che più ci riempie lo stomaco. Anche se dinamismo può significare violenza e quindi si ritorna a legare i propri ormeggi. Mia è una terra fantastica su cui approdare, è un’imprevista e prolungata e delicata fine per le mie membra e per la mia anima esposta ai venti come una bandiera, Mia sa accarezzarla e non restarne inorridita né avvinghiata, ha mani che accendono scintille per l’aria e mi sembra di poter dire che mi lascerei rotolare ai suoi piedi e glieli accarezzerei per poi tornare a guardare il cielo sentendomi vivo. E sentendola accanto. Sentendomi vivo. Mi rialzai, mi ficcai nella mia auto e lentamente mi avviai. Pensai di scrivere un racconto o ascoltare un po’ di musica. Mentre tornavo a casa con il finestrino aperto e l’orizzonte a sinistra, mi venne di nuovo sete e mi dissi: ‘Non preoccuparti che troverai qualcosa da vivere e non è detto che sarà una grossa stronzata e basta. Certo che però… passare un’estate qui… chissà poi che significato avrà…’


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