XXIII
Passeggiata senza meta
Giunsi vagabondando in Piazza Duomo. Il sole divenuto splendido dipingeva di rosa il travertino della chiesa. Lame infuocate attraversavano oblique la piazza andando a cancellare le ombre dei rosoni, delle trifore, delle bocche dei leoni, dei draghi, dei mostri primordiali ghignanti accanto ai cornicioni del tetto, in cima alle lesene. Entrai nel fresco umido delle navate. La musica dell’organo vibrava nell’aria cupa e solenne. La chiesa era vuota e buia. Solo le candele spandevano una luce fioca che pareva tremare in consonanza con le note dell’organo. Mi fermai nella cappella in cui ci aveva condotto Guido. Non so per quanto tempo, forse un quarto d’ora, forse mezzora, rimasi a contemplare la deposizione, l’enigma della quercia sullo sfondo, la croce ai suoi piedi riversa, dove era disteso il corpo del Cristo crocefisso. Mi aveva condotto in quel posto la domanda che ogni tanto mi ronzava in testa, come la mosca di Parise, mi domandavo se il fratello di Guido avesse mai visto quel dipinto, se non fosse stata quell’opera a ispirare il suo gesto folle. A volte l’arte esalta l’animo a tal punto da non essere più capaci di distinguere la finzione dalla realtà. Così accadeva nei tempi passati che all’uscita di teatro gli spettatori bastonassero l’attore che aveva interpretato magistralmente un personaggio odioso. Così tanti giovani languiscono nel pessimismo dei versi di Leopardi o nel fuoco di Holderlin, pronti a buttarsi nella bocca del vulcano per un oscuro e impreciso desiderio d’infinito.
L’organista, un omino vestito di nero, dalla capigliatura liscia e bianca sopra un viso sottile e ispirato, provava “La Passione” di Peronesi. Non avevo avuto il coraggio di parlare di quel quadro con nessuno, nemmeno con Adelina. Quella scena mi commuoveva, mi poneva a disagio, pareva emanare un’energia, un maleficio antico che solo ai nostri tempi aveva trovato il suo bersaglio, aveva assolto il compito per cui era stata dipinta. Essa aveva carpito l’anima di Giovanni, l’aveva privata della libertà. Dove è la colpa, la responsabilità? Forse fu Guido a mostrare al fratello il dipinto, e per questo motivo si macerava nel rimorso.
Formulavo pressappoco questi pensieri, quando sentii dietro di me un fruscio, uno scalpiccio di passi. Mi voltai appena in tempo per scorgere Guido, mi parve proprio lui, ma se dovessi deporre in tribunale non potrei affermarlo con certezza, che attraversava la navata centrale ed usciva in tutta fretta dalla porta laterale della Chiesa.
I banchi erano vuoti, se non fosse stato per una vecchina ferma dinanzi ai ceri votivi di una Madonna regalmente incoronata, vestita di orpelli dorati, trafitta da tante spade, come quelle addolorate che si ammirano nelle chiese spagnole; le navate erano deserte e la musica dell’organo vi si spandeva lentamente, dolcemente sonora a occupare ogni anfratto, ogni angolo buio, ogni confessionale spento dietro le grate metalliche antiche, dietro le tende polverose.
Ritornato sulla piazza, il sole era scomparso, così pure le rondini, i piccioni, i cani e ogni sorta d’animali che la popolavano in quei pomeriggi di Agosto. Radi passanti attraversavano indossando i primi maglioncini di cotone. Si era alzata una fitta nebbia che dava una sensazione di freddo, attaccandosi alla pelle delle braccia nude, ancora intrise di sudore, perché il termometro si manteneva intorno ai 28°.
Sul viale Atena il traffico delle macchine era rallentato. Le case e i lampioni parevano venirmi incontro animati da quel fumo grigio, come spiriti di un aldilà pagano.
Dalla torre campanaria di Santa Lucia si staccò un rintocco di campana.
Mi ricordava una Pasqua di tanti anni fa: c’era la stessa nebbia ed io bambino camminavo per mano con mio padre. “Cristo poteva essere morto in un giorno come quello” pensai, e mi tornò in mente la quercia, la Deposizione e Guido che fuggiva da chiesa.
“Forse sarò padre; presto, chissà, come mio padre, camminerò con un bambino per mano” Accelerai il passo rabbrividendo nell’aria umida. Incrociavo uomini e donne dalle facce stranite, chiuse nei pensieri; gli occhi, come fari sbiaditi, che non scrutavano più lontano del naso, li facevano sembrare irreali. I loro passi parevano meri esercizi muscolari di sollevare e lasciar cadere i piedi, avendo perso lo scopo di andare, di arrivare da qualche parte. La nebbia si era fatta più fitta, a stento si leggevano le insegne dei negozi che nel grigiore avevano dismesso l’abito familiare e rassicurante delle mie passeggiate solitarie per il centro.
A un certo punto non capivo più dove mi trovassi.
“Da Marco” era l’insegna a caratteri d’oro di una trattoria dove alcuni giorni prima ero stato con Michele e Luigi. Era un posticino angusto, di pochi tavoli. Una tovaglia di plastica copriva il desco e le stoviglie erano di una semplicità domestica, a buon prezzo, come di una famiglia dove non è il caso di comprarne di costose, perché ci sono bambini e si sa che presto andranno in frantumi. Marco era un distinto signore vicino alla settantina, alto, un poco curvo, i capelli brizzolati accuratamente tirati all’indietro. Nei gesti lenti e precisi, nell’espressione e nella profondità della voce conservava la signorilità dei grandi alberghi di montagna, dei ristoranti importanti e alla moda. Raccontava che la comparsa di problemi cardiaci lo aveva costretto a quell’attività più modesta e tranquilla dove riversava tutta l’esperienza e il talento di ristoratore. Sebbene il menù fosse limitato a uno o due piatti, ogni giorno era diverso, e le pietanze erano veramente prelibate. Ci aveva condotto una sera Luigi, che pareva essere un assiduo frequentatore, addirittura un amico intimo di Marco. Bevemmo dell’ottimo vino rosso. Michele raccontò qualche aneddoto del suo lavoro: di un ladro che attraversò l’Europa con un tir rubato, passando quattro frontiere. Fu scoperto a causa di un incidente banale: a un autogrill, facendo manovra, urtò una colonnina di benzina. Condannato a sei anni di reclusione, passava il tempo tranquillo e sereno costruendo antichi galeoni spagnoli di cui Michele gli aveva portato in regalo un libro illustrato. Luigi raccontò dei suoi viaggi nei paesi esotici: fu in uno di questi che conobbe Mario Cabrini, proprietario non solo del villaggio turistico, ma di tutta l’isola. Raccontò che un fortunale, uno di quei tornado che infestano il mare caraibico, distrusse l’enorme flotta di pescherecci che ogni giorno procurava il pesce che era poi congelato nei suoi stabilimenti; quel giorno era cominciato il declino dei Cabrini.
Michele gli domandò com’era possibile che informazioni delicate come la condizione patrimoniale di un individuo o di una società, potessero uscire dalla banca.
“Pochi alti funzionari possono accedere a certi dati riservati. Probabilmente qualcuno di questi, forse amico o parente di Maria… I Pergamena sono una famiglia molto grande ed hanno parenti nelle più alte sfere del mondo bancario.”
“Non si tratta semplicemente d’indiscrezioni, di parole, ribatté Tango, ma di documenti: carta, nero su bianco” Rammento questa precisa conversazione che mi confermò nell’idea che Tango fosse convinto della responsabilità di Cabrini in quello che accadeva a Pietro e Susanna. Da parte mia, dopo le parole di Marta, della cui sincerità non potevo dubitare, avevo accantonato ogni sospetto e in realtà non pensavo più a quella faccenda.
Entrai da Marco, mi era venuta voglia d’un bicchiere del vino rosso, asciutto e buono che bevemmo quella sera. La cucina era chiusa e il locale a quell’ora era frequentato da pochissimi abitudinari. A un angolo della sala, nel suo solito abito di grisaglia grigia, con un’espressione abbacchiata in viso, era seduto zio Cosimo. Come mi vide, mi invitò con un cenno del capo al suo tavolo. Ordinai un bicchiere di vino rosso per due, ma Cosimo rifiutò indicando il bicchiere d’aranciata che aveva appena svuotato: “ Non posso, credimi, ho il fegato a pezzi. Ho un dolore proprio qua sotto le costole” E si palpava l’addome al lato destro.
“ Non ne posso più, non ho tregua. Tanti muoiono di un brutto male. Se domani mi sveglio giallo come un limone è segno che è giunto il mio turno. Che arrivi presto però!” Gli domandai se era stato dal notaio
“ E’ chiuso di sabato. Mah, che si arrangino quei ragazzi! Ho fatto la mia parte. Mio padre, che ha combattuto due guerre mondiali e ha fatto perfino la Campagna in Africa, diceva che la guerra l’aveva combattuta anche per me:
– Tu non devi andare in guerra perché l’ho fatta io al posto tuo -
Si sbagliava, eccome se si sbagliava! Nessuno può sottrarsi alla propria guerra, che non è fatta solo di bombe e cannoni, più spesso è una guerra subdola, tutti i giorni sotto battuta. Neppure i suicidi riescono a sottrarsi alla loro guerra”
“Pensate al suicidio, siete depresso?” Gli domandai.
“Proprio per niente! Se potessi, se stessi bene, andrei a godermi la vita al sole, con tante belle ragazze, come fanno i nababbi, ma in queste condizioni, dove vuoi che vada? E tu dove stai andando?”
“ Da nessuna parte. Ero uscito per fare due passi, poi s’è alzata la nebbia. Mi sono trovato davanti a questa porta e mi è venuta voglia d’un bicchiere di vino.” Veramente non sapevo dove fossi diretto. Ero uscito da casa depresso, con una sensazione di sciagura imminente. La nebbia mi aveva disorientato: a momenti non riconoscevo i luoghi dove mi trovavo. La memoria, con flash di luce e di buio, mi giocava degli strani scherzi. Pensavo che così dovesse accadere a chi era affetto da demenza progressiva. Forse alla fine di quel itinerario mi sarei trovato nel buio completo: quel buio abissale della scatola cranica in cui vivono le cellule cerebrali come bianchi, ciechi polipi dai lunghissimi tentacoli.
Sarà stato l’effetto del vino, mi venne una smania di andare; uscii dalla trattoria all’aria umida e grigia della strada e ripresi il mio cammino inquieto.
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