XIX
una fiaba in biblioteca
“Dio non ha creato la donna dalla testa dell’uomo perché lo dominasse, né dai suoi piedi, perché ne fosse la schiava, ma dal fianco di lui, perché rimanesse vicino al suo cuore.”
Così recitava Albertini seduto sulla Savonarola, aspirando profondamente dal sigaro toscano. Era il tredici d’Agosto; tra meno di una settimana la biblioteca avrebbe riaperto i battenti. La consueta folla di lettori avrebbe popolato le sale con un brusio discreto, con fruscio di fogli, con schiocchi di libri chiusi, di poltroncine spostate sul pavimento di legno. Mi spiegavano i più anziani che il direttore era sempre di buonumore in quella ricorrenza.
Noi avevamo quasi terminato il lavoro di catalogazione e riordino e gli stavamo attorno in rispettoso ascolto.
“Questo passo del Talmud dimostra come già in tempi antichissimi si ponesse il problema di chi nella coppia debba comandare. Anche allora non era per niente scontato che comandasse l’uomo. In realtà, ve lo dice uno che ha una lunga esperienza: l’uomo comanda e la donna non ubbidisce mai. Ve lo dico io che vanto più di trent’anni di matrimonio infelice.
Quando invece comanda la donna, l’uomo è ubbidiente come un soldatino valoroso e non si azzarda a fare la minima protesta!” I maschi ridevano mentre le donne ascoltavano con aria perplessa.
“Scherzi a parte, è proprio vero che l’uomo deve portare la propria donna vicino al cuore, intendendo questo come la fonte dei buoni sentimenti. Se non portate la vostra donna sul cuore, la vita diverrà un Eden perduto: sarete scacciati dal Paradiso Terrestre, sarete infelici, senza pace, almeno fino a che non vi sarete divisi da lei, fin quando non sarete tornati in quella solitudine per sottrarvi alla quale il Creatore vi ha dato una compagna. Che ne pensa Cretini, lei che è Ebreo e il talmud dovrebbe conoscerlo?” Risposi che non conoscevo il Talmud, che avevo letto a stento qualche passo della Bibbia e non mi ero mai interessato di testi sacri. In realtà mi ero distratto a osservare Guido il cui viso paonazzo pareva in preda a una congestione: gli occhi lucidi fino alle lacrime, le labbra tremanti ripetevano parole incomprensibili. Quando Albertini riprese la sua omelia, mi avvicinai a lui e, afferrandolo per un braccio, gli domandai bisbigliando se stesse male.
“Non è niente, grazie, stamattina ho un po’ d’influenza, forse la febbre”
Tutti erano così servilmente interessati alle parole del Direttore che non si accorsero di nulla. In verità Albertini era un ottimo oratore: mischiando discorsi seri con facezie e stupidaggini d’ogni genere sapeva monopolizzare l’attenzione degli ascoltatori anche per un tempo lunghissimo.
“Non c’è nulla di più triste che vivere soli. La solitudine è diabolica. Intendo dire che è del Diavolo, che divide, inganna, mente!
L’uomo e la donna sono fatti per unirsi, procreare e vivere insieme.
L’unione è divina, la divisione è diabolica. Non c’è niente che ci possa rendere felici se non il tempo trascorso con la nostra donna, e lo sa bene chi la donna l’ha avuta e gli è stata tolta. Vero Sanguineti? Se lei fosse un po’ meno timido potrebbe testimoniare ora in favore di questa mia tesi.” Sanguineti era uno dei più vecchi in biblioteca, aveva quasi cinquant'anni ed era rimasto vedovo alcuni anni fa, ma si era risposato dopo neppure tre mesi dalla scomparsa della moglie, e molti sostenevano che quella donna l’aveva già da molto tempo prima, anche se nessuno se n’era accorto.
Sentitosi chiamato in causa, Sanguineti sorrise imbarazzato e dopo una lunga pausa in cui il Direttore lo fissava sadicamente tacendo: “ Certamente, balbettò, sicuro! Non c’è niente di peggio che rimanere soli!” Tutti, vedendo l’espressione del viso di Albertini che pareva dire - Altroché se ti sei consolato presto! - o forse – per te è stata proprio una manna dal cielo – considerando che la prima moglie era una donna acida e brutta mentre la seconda era molto bella e dolce, tutti, dicevo, scoppiarono a ridere. Tutti tranne Guido che aveva il viso rigato da pesanti lacrime.
“E lei Parise cosa ne pensa: chi deve comandare in casa? Ci dia un suo parere, lei che è un uomo colto, un uomo di lettere!”
Parise era un bell’uomo sui trent’anni dotato del dono dello scrivere, sebbene non avesse mai pubblicato. Si limitava a comporre versi che donava a questo o quell’ amico, a raccontare una storia, quando era in compagnia, soprattutto fiabe se erano presenti i bambini. Tutti lo stavano ad ascoltare rapiti. Ricordo una cena in campagna con i colleghi. C’erano Elena e Alberto, essi pure dipendenti della biblioteca, con i loro figli, uno di quattro e l’altro di sei anni. Siccome Elena si lamentava che il più grandicello non voleva portare l’apparecchio ai denti, Parise si mise a raccontare rivolto ai due piccoli:
“Pure a me, da bambino, fu messo l’apparecchio, ma non in bocca, bensì in testa, perché non ero capace di parlare. Così mi fu aperta la testa e cominciai piano piano a parlare normalmente. Dopo che la testa mi fu richiusa e fu tolto finalmente l’apparecchio, sentivo giorno e notte un ronzio, soprattutto di notte, che non mi lasciava dormire. Dissi a mio padre che avevo una mosca dentro la testa, ma lui non diede alcuna importanza alle mie parole. Tuttavia il ronzio continuava, ed erano parecchie notti che non dormivo. Così dissi al papà: “Metti un orecchio e senti!” Mio padre, per accontentarmi, posò l’orecchio sul capo e sentì il ronzio. Stupito disse: “Veramente c’è un ronzio, bisogna andare in ospedale e parlare al dottore” Io piansi perché non volevo tornare in ospedale e avrei preferito piuttosto tenermi quel fastidioso rumore. Il dottore fu molto meravigliato e, chiamati i suoi sette assistenti, fece posare a turno l’orecchio sul mio capo e tutti con esclamazioni di stupore sentirono che qualcosa dentro ronzava. Si ritirarono in una stanza accanto ed io li vedevo discutere animatamente dai vetri della porta. Quando tornarono annunciarono a mio padre che dovevano riaprirmi la testa. Il giorno dopo mi misero l’apparecchio di prima e, aperta la testa, z.z.z.z.z… ne uscì una mosca!
Il dottore disse che non si era mai vista una cosa simile, che non era mai capitato… Mi richiusero la testa e tornai a casa guarito. Ebbene quella mosca mi seguiva ovunque e, forse perché era vissuta per tanto tempo nel mio cervello, capiva ogni cosa che le dicessi. Ad esempio le comandavo: “Salta qua” e lei saltava qua. Le dicevo: “Salta là” e lei saltava là. Oppure faceva il giro della stanza, se glielo ordinavo. C’era nella casa di fronte alla nostra un bambino malato, che non poteva camminare e stava tutto il tempo su una sedia a rotelle. Io prendevo un rotolino piccolissimo di carta, scrivevo un messaggio, lo legavo alla zampina della mosca e lei ronzando glielo portava. Il bambino era molto felice di quel gioco e mi rispondeva allo stesso modo” Qui Parise si fermò facendo una lunga sosta, come se si fosse dimenticato dei bambini, e questi lo interrogavano impazienti “E poi? Ce l’hai ancora la mosca?”
“Un giorno, a pranzo, mentre mangiavo il brodo caldo, la mosca si era posata sul bordo del piatto e allungava la zampina bagnandola di brodo per assaggiare. Poi allungò tutt’e due le zampe di davanti e si sporse tanto che cadde nel brodo e morì affogata. Io non mi accorsi di nulla perché mi punzecchiavo e mi davo calci sotto il tavolo con mia sorella. Così, col brodo, mangiai pure la mosca”
Ricordo ancora le espressioni comiche d’orrore dipinte sui visini dei due pargoli. Adelina, scandalizzata, si scagliò contro Parise dicendo che non si dovevano fare certi racconti ai bambini, che rimangono traumatizzati. Parise rispondeva che i bambini d’oggi vedevano ben altro alla televisione, che i cartoni e persino le fiabe che erano state propinate a noi, quando eravamo bambini, contenevano una buona dose di violenza, eppure non pareva che fossimo cresciuti male. Ne nacque così una lunga discussione che non sto qui a riferire oltre. Parise era un ottimo poeta e scrittore, ma non aveva prodotto niente perché era posseduto da una passione che lo annichiliva, cui dedicava tutte le energie intellettuali: il gioco delle carte. Quando tornava a casa, a notte fonda o alle prime luci dell’alba, la moglie lo accoglieva con vere e proprie crisi isteriche: urla e botte si susseguivano con una furia impressionante. La poveretta era tanto traumatizzata dal vizio del marito che pareva giunta sull’orlo della pazzia. Una volta soltanto cercò di sottrarsi scappando da casa: fu quando il marito perse al gioco la casa al mare che i suoi genitori avevano acquistata con tanti sacrifici e che le avevano lasciata da pochi mesi in eredità.
Parise la rincorse, la supplicò di tornare, le fece promesse che, lei sapeva, non avrebbe mantenuto. Tuttavia tornarono insieme e lui riprese a frequentare le bische cittadine. Noi colleghi lo vedevamo arrivare in ufficio con il collo e il viso segnato da graffi, da piccole abrasioni rosse, dei cerchi sulle guance o nelle mani che riproducevano le arcate dentarie della moglie. Adelina li chiamava “orologi” e mi diceva: “Che ora fa oggi Parise?”. Per compensarla di quella vita grama, per farsi perdonare, Parise era servizievole e completamente sottomesso al volere della moglie.
“Mein Direktor, certe d’uopo sit imperare homo. Sed saepe nos debilitat amor, atque femina, anima priva, nos superat et nos facit prigiones atque captivos.” Solo a Parise era permesso di rivolgersi al direttore con quel linguaggio burlesco, misto di strafalcioni pseudo teutonici e latino maccheronico, a significare l’autoritarismo del grado che la carriera burocratica soltanto conferiva al direttore. E solo da lui Albertini avrebbe tollerato quell’ironia garbata, ma a volte pungente. Tutti ridemmo di quella trovata e quando il direttore tornò nel suo studio, il brusio delle chiacchiere lentamente si spense e ciascuno riprese il proprio lavoro. Adelina soltanto si fermò vicino al mio tavolo: “Ma guarda, chi avrebbe mai detto che Albertini fosse capace di simili discorsi, ogni tanto rivela profondità impensate. Peccato che non sia mai serio fino in fondo. Perché non dire che nella coppia nessuno dei due deve comandare, che deve esistere un’armonia che si chiama Amore, non ti pare?” Guido era pallido come un cencio. Lo seguivo con la coda dell’occhio, mentre barcollante andava in toilette. Meno male che nessuno se n’era accorto, almeno così speravo.
“Non credi che questo fosse il senso di quel pezzo ebraico? A proposito, ti ricordi le parole? Voglio scriverlo da qualche parte!”
Adelina aveva un’idea tutta sua di Dio, conservava brani di testi religiosi e filosofici, aveva un’agenda zeppa di citazioni del Vangelo, della Bibbia, del Corano, di testi buddisti e di altre religioni orientali, così pure trascriveva Platone, Aristotele, Plotino, S. Agostino, Spinosa, Kant , fino ai filosofi contemporanei. Mi meravigliava questo interesse che coltivava fin dall’infanzia. Rimanevo volentieri seduto in cucina, mentre leggeva ad alta voce quelle massime dal suo libricino, intrecciandole in un discorso coerente ed interessante sugli argomenti più disparati. Credo che considerasse quei momenti l’espletamento della sua missione di evangelizzazione, ed io ero il selvaggio da catechizzare, da convertire. Ero d’accordo con lei quando diceva che non esiste una Verità assoluta ma più verità, o meglio tanti frammenti di realtà che diciamo veri per comodità di linguaggio. Adelina sembrava, a chi non la conosceva intimamente, una ragazza superficiale, priva di interessi, se non quelli tipici delle donne: i bei vestiti, i gioielli, che non possedeva perché costavano troppo, la cura del proprio aspetto. Nessuno sospettava in lei quella necessità di andare al cuore delle cose per conoscere, per capire in profondità. Come nessuno avrebbe mai sospettato in lei tanta smania di godere, che costituiva il tormento della nostra relazione.
Ho scritto questo capitolo, che a prima vista può sembrare superfluo, per tre motivi: il primo perché mi premeva di illustrare l’ambiente della biblioteca, che il lettore potrebbe credere costituito da grigi travet immersi nelle carte polverose, senza speranza alcuna di comunicazione. Invece si respirava un’aria di franco cameratismo e perfino di amicizia. Albertini, burbero e bonario ne faceva parte e forse ne era la causa prima.
Secondo motivo è descrivere un altro aspetto, non secondario, del carattere di Adelina, che era una ragazza complessa e che penso di aver conosciuto fino in fondo soltanto io. Infine quell’atteggiamento di Guido, quel pianto silenzioso che mi inquietò parecchio. Mi domandavo se fosse causato dalla sua autoemarginazione o se l’amore per Susanna e il dolore che ne conseguiva, fossero giunti a un grado così elevato da divenire passione insana, da fargli perdere il controllo su se stesso.
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