Capitolo 1
Fuori
Non è possibile, sono già le cinque!
Devo assolutamente uscire da questo posto entro un’ora, altrimenti anche oggi salterò la lezione di Yoga. E poi ho solo venti minuti per mandare il report: maledette scadenze!
Ogni giorno è la stessa storia: le lancette dell’orologio iniziano a girare senza controllo non appena si avvicina l’orario della consegna dei dati.
Tic, tac, tic, tac… Sembrano impazzire improvvisamente, spinte da un ingiustificato desiderio di vendetta nei miei confronti. Ma cosa vi ho fatto?
Sento aumentare il ritmo. Il ticchettio prende velocità e il suo suono sembra amplificato da una cassa di risonanza, mentre dentro di me l’ansia cresce repentinamente fino a farmi perdere il controllo. Il cuore batte più forte, come se volesse adeguarsi a questo assurdo gioco diabolico.
Ultimamente mi sembra di lavorare con una ghigliottina puntata sul collo: la canaglia mi guarda con aria beffarda per ricordarmi lo scorrere inesorabile del tempo e il suo sorriso diventa sempre più compiaciuto con il passare delle ore. No, non mi lascerò intimorire. Anche oggi la sua lama dovrà rimanere sollevata, a costo di copiare questi maledetti numeri senza togliere lo sguardo dal monitor neanche per una frazione di secondo.
Inizio ad odiare questo lavoro. Restare seduti su una scrivania per dieci ore, con la sola compagnia di numeri e dati, è alienante. Forse, dopo cinque anni di back office, sento la necessità di fare altro.
Calma! Adesso mi devo concentrare sul file, non pensare alle mie aspirazioni o a che cosa preparerò stasera per cena e, soprattutto, non risponderò più al telefono: sembra che oggi abbiano organizzato un flash mob per non farmi uscire da questa prigione; lo squillo del mio interno è stato più assillante di un tormentone estivo.
Ormai è da un pezzo che mi sento in trappola. Troppe attività concentrate insieme, da non riuscire neanche lontanamente ad immaginare che fuori da queste mura possa esistere vita umana. E purtroppo dall’aria che tira non credo proprio che le cose cambieranno molto presto.
Oggi ho bisogno di trovare un po’ di tempo per me stessa; non ho avuto né una promozione, né un centesimo di aumento, quindi, se voglio resistere, devo cercare una motivazione fuori da questo dannato posto.
Apro il file per elaborare gli ultimi dati, ma dopo neanche un secondo sento nuovamente il trillo malefico del telefono: è Sandra, l’assistente del capo; non posso evitare di rispondere. Ci mancava solo questa!
«Olivia, vieni su tra cinque minuti, Maiori vuole parlare con te.»
«Ok, grazie Sandra, arrivo.» La lezione di Yoga anche per oggi è andata e il report arriverà in ritardo. Maledizione! Lancio un plico di fogli sulla scrivania e colpisco in pieno il portapenne, facendo cadere tutto il contenuto, compresa la spillatrice, che produce un forte suono metallico. Al diavolo anche tu!
Rimetto a posto frettolosamente un paio di penne, una matita e un evidenziatore arancione, in maniera del tutto disordinata, poi cerco di infilare anche la spillatrice, che con il peso sbilancia il portapenne, facendolo cadere di nuovo. Sbatto i pugni sul tavolo e mi alzo, lasciando la scrivania in disordine.
La rabbia lascia ben presto spazio alla curiosità: lavoro in questo posto da ben cinque anni e non mi è capitato molte volte di parlare a tu per tu con il Baffo; in genere ci incontriamo durante le riunioni con gli altri colleghi del team e mai da soli: cosa dovrà dirmi?
Non sono la prima persona che viene in mente quando c’è da discutere di qualche progetto, nonostante le mie informazioni siano fondamentali per la pianificazione di qualsiasi attività. Il motivo è la scarsa visibilità del mio ruolo: elaboro dati ed invio report che poi vengono sviluppati da altri reparti; in poche parole, lavoro dietro le quinte.
Non ho il carattere da protagonista, ma senza di me lo spettacolo non avrebbe successo; è quello che mi ripeto ogni mattina, quando la sveglia mi riporta alla realtà.
Forse il mio grande limite è che non mi espongo; svolgo i compiti alla perfezione, ma non sono in grado di venderli. Potrei inviare decine di mail per conoscenza ai capi, scimmiottare durante le pause, oppure fissare incontri periodici per fare il punto della situazione, ma in realtà preferisco arrivare al risultato senza inutili perdite di tempo.
Non sono come Rachele: lei ha un modo di fare completamente diverso dal mio; ogni suo più piccolo passo ha una risonanza amplificata. Riuscirebbe a spacciare una goccia di acqua putrida per il miglior vino francese.
Rachele non rischia di certo una tendinite da mouse, anzi, ad essere sinceri, lavora un terzo di quanto faccio io, ma, nonostante ciò, tutti in azienda hanno una fortissima considerazione di quello che fa e che dice. Baffo incluso.
In effetti ci sa fare.
A volte vorrei essere anche io la padrona indiscussa delle situazioni e magari godere della stima dei miei colleghi, ma sono solo momenti fugaci. A pensarci meglio, sto bene così. Lavoro a testa bassa, senza sentire la necessità di dimostrare nulla: preferisco stare seduta nella mia postazione sommersa dai numeri, anziché curare le relazioni personali davanti la macchinetta del caffè. E devo riconoscere a me stessa che se il telefono squilla con questa frequenza incessante, non sono poi così male…
È stato proprio il Baffo a scegliermi cinque anni fa. Ricordo perfettamente la sua prima domanda durante il colloquio: «Signorina Ronchi, mi dica un suo pregio e un suo difetto.» Ed io: «Un pregio? Perché solo uno? Oh, peccato, ho subito svelato il mio difetto.» Si mise a ridere. Da lì il colloquio prese una piega più sciolta ed informale. Il giorno dopo mi dissero che avrei potuto iniziare un periodo di prova.
Io e Rachele lo abbiamo ribattezzato “il Baffo” già durante la mia formazione, per via dei suoi baffetti alla Clark Gable. «Ma purtroppo solo quelli!» ci ripetiamo rassegnate di fronte all’evidenza del suo aspetto non molto avvenente.
Con Rachele è scattata subito una grande sintonia. Siamo diverse, è vero, ma in lei ho trovato una collega, una confidente, un’amica.
Il primo giorno di lavoro mi sentivo spaesata, non conoscevo nessuno e non sapevo da dove iniziare. Rachele si è avvicinata e mi ha detto: «Ciao. Tu sei Olivia, vero? Mi chiamo Rachele e mi occuperò del tuo training, ma non ti preoccupare, c’è tempo per imparare. La prima cosa davvero importante che devi capire, è con chi hai a che fare qui dentro, quindi inizieremo da un mediocre caffè e ti consiglio con tutto il cuore di prenderlo macchiato se non vuoi sentirti male.»
Suppongo di aver conosciuto almeno metà dell’azienda durante quella sosta alle macchinette.
Di ognuno Rachele mi ha raccontato caratteristiche, accorgimenti e qualche piccola voce di corridoio. Da quel giorno il nostro rapporto è diventato sempre più stretto e abbiamo iniziato a frequentarci anche al di fuori dell’ufficio.
Rachele è la tipica donna che non puoi fare a meno di notare: bella, solare, imprevedibile, sempre con la frase giusta al momento giusto. Io sono timida, a volte un po’ goffa, sicuramente riflessiva: ho bisogno di più tempo per venire fuori. Mi considerano tutti una bella ragazza, ma quando sono con Rachele gli occhi sono tutti puntati su di lei. Paradossalmente però questa cosa anziché infastidirmi mi fa sentire sicura e protetta.
Allontano i pensieri; preparo block notes, penna e salgo su. Decido di prendere le scale e non l’ascensore; mi aiutano a scaricare la tensione.
Cosa mi dirà? Mi vorrà comunicare che ho avuto una promozione? È da anni che l’aspetto! Sì, sarà sicuramente questo; è il mio turno, la mia occasione. Oppure? Mhm... Forse vorrà propormi un nuovo incarico? In cinque anni non ho mai cambiato ufficio. Eppure, in azienda c’è molta job rotation. Vediamo… cosa mi piacerebbe fare? Accidenti non sono preparata, non mi aspettavo questo incontro. Forse il marketing potrebbe fare al caso mio: all’università era il mio corso preferito, e poi conosco meglio di tutti i dati e i numeri per elaborare dei piani vincenti. Già… Questo ruolo, inoltre mi aiuterebbe a mettermi più in vista, aumentando le occasioni per ottenere la mia meritatissima promozione.
E se invece mi volesse spedire in contabilità? Sono ragioniera, ho una laurea in economia aziendale e prima di venire a lavorare in questo posto mi occupavo proprio di quello. A pensarci bene potrei sembrare la persona ideale per svolgere la funzione, ma per me è sempre stato solo un ripiego, in realtà la detesto.
Manca solo una rampa di scale. Ci siamo. La porta è chiusa. È sempre chiusa. Busso.
«Venga pure Olivia.»
Ogni volta che entro in questa stanza mi sembra di entrare in un tempio sacro. Manca solo il suono della lira. Sorrido e scaccio subito via il pensiero di Apollo che allieta il direttore con la sua musica. In realtà sono tesa, molto tesa; questa stanza mi innervosisce, inutile negarlo. Respiro lentamente, per recuperare il fiato perso salendo le scale, ma, soprattutto, per allontanare il nervosismo che mi assale puntualmente, ogni volta che mi trovo in questo posto; mi avvicino alla scrivania e rimango in piedi, aspettando un cenno.
«Buongiorno direttore, mi ha fatto chiamare?» Uso un tono di voce fermo, per mascherare la mia insicurezza.
«Olivia, si sieda pure. Non voglio farle perdere tempo, vado subito al dunque.»
Sbuffo dentro di me. Beh, è vero che non c’è questo grande rapporto tra di noi, forse non sono esattamente il suo braccio destro, ma non mi trasformo in un drago se qualcuno mi chiede come va, o se finge di essere interessato a me come essere umano. Quando vengono convocati gli altri si perdono le loro tracce per ore, è come se venissero risucchiati da un buco nero. Non capisco perché invece io, ai suoi occhi, sono solo una pratica da liquidare in due minuti.
Il Baffo mi guarda, come se volesse scrutare i miei pensieri, poi abbassa lo sguardo su un foglio, per rivolgermi nuovamente la sua attenzione dopo pochissimi secondi.
Io cerco di mostrarmi sicura, accavallo le gambe e alzo leggermente il volto, pronta a capire quale sia il motivo di questa memorabile convocazione.
«Dunque, Olivia, come ben sa ultimamente il quadro economico dell’azienda non sta evolvendo verso la direzione che auspicavamo. D’altronde lei ha avuto modo di vedere gli ultimi dati. La crisi non risparmia nessuno purtroppo, e anche noi, nonostante tutti gli sforzi, siamo entrati in questo trend negativo.»
La piega che sta prendendo il discorso non mi piace. Mi vuole dire che non avrò la mia promozione, lo so, non ci sono soldi. Ma non importa, basta che mi faccia andare via da quell’ufficio. Speriamo almeno che mi proponga il marketing, in caso accetto subito! Di sicuro non mi metterò a contrattare; non sono una di quelle a cui piace negoziare come in un suq arabo. Prenderò per buona qualsiasi proposta, l’importante è lasciare il back office. Taccio e aspetto, cercando di non mostrare le mie perplessità.
«Proprio ieri ho avuto un meeting a Milano con la direzione generale e purtroppo mi hanno comunicato che dovremo fare ulteriori tagli. Lei sa che non abbiamo potuto confermare gli interinali.» Fa una pausa interminabile. Lo sguardo mi cade sulla coppa che ha vinto al torneo di tennis aziendale. Che orgoglio, eh? Neanche avesse vinto la medaglia d’oro alle olimpiadi di Seoul.
«Lei sa che è entrata in azienda per elaborare i dati che ci consentono di avviare nuovi progetti, ma molti di questi salteranno, li dobbiamo eliminare dalla nostra programmazione. Costano troppo e non rendono quanto avevamo sperato.»
Inizio a diventare sempre più nervosa: dove vuole arrivare?
«Olivia, non giriamo intorno alla questione. Quello che voglio dirle è che mi è stato imposto di ridurre il personale del 10% entro quest’anno e la percentuale è destinata a salire nei prossimi tre anni. Qualcuno andrà in prepensionamento, altri verranno licenziati. Lei purtroppo fa parte di quest’ultima categoria. Le ho detto che verrà meno la sua mansione e attualmente non è possibile il ricollocamento in altri ruoli compatibili con il suo livello di inquadramento. Ovviamente avrà la sua liquidazione e sto facendo di tutto per farle avere qualcosa in più di quanto le spetta.»
Non è possibile, ho capito male, devo aver per forza capito male! Mi vuole dire che l’azienda è in crisi e che rischio di rimanere ferma, sia come livello, che come mansione.
Però, se il mio cervello funziona ancora, il Baffo ha parlato di ridurre il personale, di licenziamento e di liquidazione. Perché?
All’improvviso, ogni parola nella mia testa viene collocata nella giusta posizione, urlando con voce incessante la sentenza che non avrei mai voluto udire. Sono paralizzata.
Oddio, sono fuori, mi sta licenziando!
Sento salire prepotentemente le lacrime agli occhi. Non ci credo, è uno scherzo!
Ho un contratto a tempo indeterminato, sono brava, svolgo il mio lavoro con serietà e precisione da più di cinque anni, mi chiamano pure quando mi assento per mezza giornata e poi, lavoro anche con la febbre! Ricordo quando ho tolto il dente del giudizio. Giusto il tempo di prendere antibiotico e antidolorifico e sono corsa in ufficio. Avevo un faccione da manga giapponese ma stavo lì a disposizione, come sempre.
Ci deve essere un errore. Siamo circa cento dipendenti, sei sono quasi in età da pensione, forse sette, ora non ricordo. Questo vuol dire che io e altre due persone verremo licenziate senza un valido motivo? Di certo tra questi ci sarà Baroni, dopo il casino che ha fatto… Ma io? Tra cento persone proprio io? Possibile che non c’è un ruolo compatibile con il mio?
È solo una maledetta scusa per farmi fuori!
Non riesco più a ragionare. Mi si è offuscata la mente e non sento le gambe. So solo che sto male, sto molto male.
«Mi dispiace Olivia, so bene come si sente in questo momento. È stata una decisione sofferta. Ho cercato di fare il possibile per evitarlo, ma lei sa che di fronte alle scelte dei vertici anche io posso fare poco. Comprendo che non deve essere facile ricevere una notizia del genere, così come non è facile per noi privarci di una risorsa valida come lei.»
Sento la vista annebbiarsi; la stanza gira intorno a me in maniera inspiegabile, mentre mi riecheggiano nelle orecchie le parole assordanti del direttore: so bene come si sente. Non deve essere facile ricevere una notizia del genere…
No, lei non sa niente, grandissimo idiota! Lei sa solo cosa vuol dire vivere nel suo attico da due milioni di euro e girare con quel Suv che sembra un’astronave più che una macchina. Anzi, se lo faccia dire, quei cerchi in lega sono la cosa più schifosa e cafona che abbiano mai visto i miei occhi. E vogliamo parlare delle sue giacche? Starebbero meglio ad un orango di Sumatra. Ma cosa ne vuole sapere lei di me, della mia vita e dei miei sacrifici? Delle notti passate a lavorare al pub per pagare i libri e l’abbonamento della metro? E poi non ho più vent’anni, sono vecchia per trovare un altro lavoro, lo so bene! Anna ne sta disperatamente cercando uno da anni, ma il cellulare le squilla solo quando qualche gentile signorina dall’accento straniero deve venderle qualche nuovo servizio telefonico.
Dove andrò? Cosa mi potrò inventare?
«Mi dispiace Olivia...»
È solo questo che sa dire brutto baffone decrepito?
Ma in realtà non rispondo; le parole mi si fermano in gola.
Mi allontano. Sento le mie gambe muoversi lentamente verso la porta, mentre lo sguardo rimane fisso nei suoi occhi. Non so se traspare disperazione o odio, non so neanche io quello che provo. Torno sulla rampa di scale. Ho la nausea, forse è meglio prendere un po’ d’aria, ma non riesco neanche ad arrivare al primo piano, che già crollo in un pianto ininterrotto.
Proprio in quel momento Rachele esce da una stanza e mi guarda impietrita. Non mi dice niente. Vedo solo il suo sguardo impotente rivolto verso di me. È come se mi volesse dire: “No, non può essere, dimmi che non è vero quello che sto pensando.” E invece rimane immobile mentre io scappo via verso l’uscita. Voglio fuggire da quella gabbia delle torture, voglio tornare a casa, voglio piangere tra le braccia di Giulio.
È come se all’improvviso, senza neanche accorgermene, il luogo che, nonostante tutto, mi aveva accolta e protetta fino a qualche secondo fa, si fosse trasformato nella casa degli orrori: tutto ha cambiato colore ai miei occhi; le pareti arancioni sono diventate grigie, la luce dei neon si è offuscata, fino ad affievolirsi sempre di più, per diventare oscurità.
Le tenebre mi avvolgono e mi soffocano dentro un mantello infernale.
Cerco di liberarmi da quel velo cinereo, ma non ho le forze e così mi lascio sopraffare, fino ad essere travolta e inghiottita.
Le lacrime non mi consentono di avere la giusta prospettiva, afferro la borsa e scappo via senza neanche timbrare l’uscita.
Corro il più velocemente possibile, come se dovessi scappare da una creatura mostruosa. Per la fretta, urto contro un collega che si era fermato davanti la porta d’ingresso a fumare. Lo sento farfugliare qualcosa da lontano, ma ignoro il poveretto e continuo la mia corsa verso la fermata dell’autobus.
L’aspetto negativo di non avere una macchina è che si è costretti a prendere i mezzi pubblici anche nei momenti meno opportuni.
Ricordo che un paio di mesi fa, verso le quattro del pomeriggio, ho iniziato a stare male in ufficio. Sentivo un fortissimo mal di testa e la fronte bollente e quindi non ho potuto fare a meno di anticipare l’uscita di un’oretta. Il viaggio verso casa è stato esasperante. Le gambe non reggevano il peso del corpo e ovviamente non c’erano sedili liberi. Nessuno si è alzato. Certo, non c’era scritto in faccia che stessi male, o forse sì, ma ho sperimentato che è più facile trovare una pepita d’oro su una spiaggia affollata, piuttosto che incontrare qualcuno disposto a cedere il suo posto su un autobus stracolmo.
In quel momento ho capito che anche io sono capace di provare odio.
E così, oggi come allora, il desiderio di avere una macchina è alle stelle: ho dimenticato gli occhiali da sole in ufficio, ho due occhi più gonfi del di dietro di un macaco e tutti mi guardano come se fossi appena sbarcata da Sirio.
Solo altre due fermate e questo incubo sarà finito: tra dieci minuti potrò piangere indisturbata nel mio letto.
Quando finalmente riesco a scendere dalla gigantesca gabbia a quattro ruote, corro verso casa, metto la chiave nel portone e corro su, senza aspettare l’ascensore. Il signore dell’ultimo piano mi guarda come per dire “Questi giovani di oggi...”, ma non ho neanche il buon senso e il desiderio di essere educata. Non ora.
Apro la porta, e mi butto sul letto, senza togliere le scarpe. In condizioni normali avrei detto a me stessa che non è saggio coricarsi con i vestiti indossati su mezzo pubblico sporco e fatiscente, figuriamoci con le scarpe. Tuttavia, preferisco contaminare il letto di microbi e virus letali, piuttosto che risparmiarmi qualche secondo di lacrime.
Affondo la testa sul cuscino e mi lascio annullare dal dolore.
Rimango in quella posizione per un periodo non ben definito. Mi sento senza forze, incredula e incapace di analizzare con lucidità quello che mi è appena successo. Non ho né la voglia, né la motivazione giusta per alzarmi dal letto. Resto immobile, sdraiata a pancia in giù, alternando momenti di rabbia a singhiozzi pieni di disperazione, fin quando, dopo aver sfogato ogni singola emozione, sento finalmente entrare Giulio dalla porta.
«Oli, sei in casa?» Sentire la sua voce è come ricevere una leggera carezza sulla ferita profonda e sanguinante, ma, nonostante tutto, continuo a piangere a dirotto.
Giulio mi vede e corre verso di me preoccupato.
«Ehi, ma cosa diavolo è successo?»
Respiro un attimo, giusto per prendere fiato e rispondo con la rabbia negli occhi.
«Sai cosa ottieni quando ti svegli ogni mattina alle sette, vieni schiacciato da migliaia di persone per cercare di salire su un autobus, lavori come un somaro per nove/dieci ore al giorno, tieni il cellulare acceso anche fino mezzanotte se serve, perché magari qualcuno può avere bisogno di te? Eh? E sai cosa ottieni quando dai tutta te stessa per un lavoro rinunciando alla tua vita personale? Eh? Lo sai?»
«Anche quest’anno niente promozione suppongo…»
«No Giulio, troppo semplice, ritenta.»
Giulio mi guarda impietrito: «No, Oli…»
«Intuizione esatta. Però l’australopiteco ha detto che gli dispiace, perché sa come mi sento in questo momento e che sarà difficile privarsi di una risorsa valida come me. Anche il coraggio di prendermi per i fondelli!»
«Olivia calmati. Non so se possono farlo. Domani chiamerò il mio sindacato e vediamo quello che mi dicono, ok?»
«Mettiamo il caso che dopo una guerra tra titani, io riesca a tornare a lavoro: secondo te che fine mi faranno fare? Te lo dico io: me la faranno pagare fino all’ultimo respiro, sarà un inferno. Non posso fare nulla contro di loro. Hanno il coltello dalla parte del manico; sono i potenti, gli intoccabili, quelli che l’avranno sempre vinta in un modo o nell’altro.»
Scoppio di nuovo a piangere e Giulio non può fare altro che abbracciarmi in silenzio. Ora l’unica cosa di cui ho bisogno sono due braccia forti nelle quali perdermi, per non pensare a nulla.
Rimango in quella posizione per non so quanto tempo, poi mi rendo conto che la sua camicia è ormai un mix di lacrime e mascara colato. Non importa, domani la porterò in lavanderia; la camicia al momento non è un problema.
Mi alzo e vado in cucina, prendo un fazzoletto e mi asciugo il viso. Poi afferro un cuscino e lo metto sul divano; di sicuro stanotte non chiuderò occhio e chissà quanto ci vorrà per metabolizzare questo ben servito, adesso voglio solo piangere. Giulio mi raggiunge, guardandomi con un’espressione impotente. Sembra imbarazzato, è chiaro che non sa come comportarsi. Poi si avvicina dolcemente, sfiorandomi la guancia.
«Riesci a mangiare qualcosa?»
«Non ora, grazie.»
«Oli, lo so quanto è dura, ma passare la serata a piangere, per di più a stomaco vuoto, non ti aiuterà a star meglio.»
«Vai a dormire, ora ho bisogno solo di sfogarmi.»
«Ok, ma vieni a letto almeno.»
«Lo farò non appena mi sarò calmata.»
«Mi dispiace, non so davvero cosa fare per farti stare meglio.»
«Hai già fatto abbastanza. Grazie. Vai a dormire.»
«Chiamami se hai bisogno.»
«Lo farò, non ti preoccupare.»
E invece decido di stare da sola, abbracciata al cuscino e con il fazzoletto ormai ridotto ad uno straccio molliccio e viscido in mano. Piango, mi dispero e cerco di darmi delle spiegazioni che non riesco a trovare in nessun modo.
Domani di sicuro non andrò in ufficio, non me la sento. Ho ancora ventisette giorni di ferie da utilizzare. Non serviranno più.
Io e Giulio avevamo programmato un viaggio in Francia per l’estate.
Dopo varie opzioni la decisione era caduta su un fly and drive itinerante. Prima sosta: Parigi. Sono già stata tre volte nella Ville Lumière, ma per me è sempre una piacevole scoperta. Parigi ha un’energia positiva: mi fa stare bene. Anche il solo fatto di stare seduta su un tavolo del quartiere latino a leggere un libro, riesce a farmi sentire appagata e felice.
Da Parigi pensavamo di proseguire poi per Rouen, Saint Malo, Mont Saint Michel e continuare senza meta, alla scoperta di Normandia e Bretagna: soltanto con la voglia di scoprire e di vivere la bellezza dei posti.
Se solo avessi sospettato qualcosa, sarei rimasta a casa sia per le vacanze di Natale, che per un paio di ponti che ho preferito cedere a Filetti. Lui ha due figli, è giusto che rimanga a casa con loro il più possibile, io invece non ho grosse esigenze, quindi quando c’è da decidere il piano ferie cedo a lui la prima scelta.
Non sono mai stata brava a gestire il mio tempo libero e così cerco sempre di far coincidere i miei giorni di ferie con quelli di Giulio. E poi non avrei mai potuto prevedere una eventualità del genere. Era tutto così diverso fino a un giorno fa.
E ora? Ci andremo lo stesso in Francia? Avrò un altro lavoro o sarò disoccupata?
Oddio, disoccupata! È una parola che mi fa paura e mi disorienta completamente.
Dovrò aggiornare il curriculum, passare le mie giornate su internet a cercare annunci, fare colloqui, rispondere cento volte alle stesse domande: “Mi parli delle sue esperienze lavorative. Di cosa si occupava in particolare? Come si vede tra cinque anni? Quali sono i suoi punti di forza?” E via, giù con il dischetto.
Mi chiedo come mai, in anni e anni di colloqui, non abbiano inventato qualche domanda diversa, originale. E studiano pure per dire queste cose!
No, mi rifiuto: non ho né voglia e né forza di farmi analizzare da una neolaureata di ventiquattro anni in tailleur nero e camicia bianca; non posso accettarlo!
E poi, come passerò le mie giornate? Sono abituata ad avere una vita scadenzata. Mi alzo alle sette, preparo il caffè, faccio la doccia, mi vesto ed esco di corsa. Arrivo a lavoro alle nove meno un quarto circa, controllo le email, faccio qualche telefonata di lavoro e mi immergo nei dati. Alle sei e mezza esco, faccio la spesa, quando riesco vado in palestra, torno a casa, cucino con poca fantasia per me e per Giulio, metto su una lavatrice, stiro qualche camicia e la giornata finisce così.
È tutto così stabilito.
Io non penso di riuscire a rinunciare alla mia abitudine e alla mia quotidianità, non posso riempire in completa solitudine una giornata di 24 ore. Rabbrividisco solo al pensiero.
È tutto così assurdo e inaccettabile: io un lavoro ce l’ho, è mio! Forse è vero, ultimamente non mi sentivo proprio appagata, ma quella scrivania è mia; ci sono le foto della trasferta di Bologna, i miei post it, la caricatura di Boschi, il mio spazzolino.
Nonostante ogni frustrazione quella è la mia vita, la mia seconda casa; ne ho bisogno come l’aria. Non possono togliermelo, non devono!
Riparlerò con Maiori e se c’è qualcosa che posso fare per migliorare la farò. Posso iniziare a mettermi in mostra, berrò qualche caffè in più, magari inizierò pure a fumare se è necessario; le migliori opportunità d'altronde nascono davanti ad una sigaretta.
Oh no, sto davvero impazzendo, mi sto prendendo in giro. Devo accettare una situazione che non posso cambiare. E Dio solo sa come farò.
Di certo non tornerò a lavoro, né domani e né mai. Concorderò un mese di preavviso e considerando le ferie arretrate, posso permettermi di non mettere più piede lì dentro.
Sono una codarda? Forse, ma sono sicura che decidessi di andare in ufficio, passerei tutte le otto ore a piangere. Perché devo infliggermi questa punizione? E poi, sicuramente, prima di andare via, mi chiederanno di fare il passaggio di consegne a qualche bamboccio incapace. Trovo assurdo licenziare una persona e chiederle di trasmettere cinque anni di duro lavoro a chi la sostituirà come se fosse il pezzo di ricambio di un’utilitaria scassata.
Non mi vedranno mai più, questo è sicuro.
Ma ora devo concentrarmi su un nuovo compito: imparare ad organizzare le mie giornate.
Dicono che l’abitudine sia noiosa. È una falsità. L’abitudine è un rifugio, è il porto sicuro dove potersi rintanare per sfuggire all’imprevedibilità della vita.
Servono punti fermi per non impazzire, quei piccoli e semplici elementi statici a cui aggrapparsi quotidianamente per sentirsi più sicuri, per rendersi conto che la terra è ferma, nonostante l’universo stia fluttuando verso direzioni ignote. Io sento di aver smarrito la direzione. Se guardo verso il cielo non riesco a scorgere la stella polare, è tutto così maledettamente offuscato! Se solo avessi una bussola…
E adesso che farò? Dove troverò le mie nuove coordinate?
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