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LUCANIA / BASILICATA: la tradizione ‘sommersa’ del Sud

Argomento: Letteratura

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 07/01/2016 19:46:49

LUCANIA / BASILICATA: la tradizione ‘sommersa’ dell’Italia del Sud.

La Lucania/Basilicata, cosiddetta anche ‘la terra del rimorso’, è una regione di classica bellezza e di eccezionale varietà di aspetti, che comunicò a Roma ed al mondo occidentale l’impulso della civiltà greca e mantenne viva la tradizione dell’arte bizantina.
“Come amorevolmente protetta da robuste braccia, fra le due estreme penisole della Iapigia e della Calabria, regni delle Murge e delle Sile, si apre la classica costa ionica dela Basilicata, alla quale fanno corona la tragica Metaponto, bella ancora di templi dorici, la bianca Pisticci ricca d’industrie, Montalbano Ionico, centro agricolo e la fiorente Policoro, vicina ai resti di Heraclea che col castello dei Berlingieri, attorniato da umili abituri, domina la sua opulenta pianura e il mare …”.

Inizia così il bel libro “La mia Basilicata” di Concetto Valente che il figlio Giuseppe ha voluto dedicargli postumo nel centenario della sua nascita:

“La spiaggia e la circostante silenziosa pianura, sembra ora ridestarsi da un sonno che si perde nei tempi ed avvince per il suo vero e molteplice aspetto antico e storico, artistico, culturale e pittoresco: contrada che meglio custodisce il tipo del paesaggio classico, solenne e suggestivo. Proprio in questo sacro silenzio emergono le linee di una energia primaverile, in cui il soffio stesso è il caldo alito di una febbre di altezze e di aspirazioni sante. E la campagna racchiude in sé i segni possenti delle età passate …”.
Ben poco rimane all’immaginario da fantasticare, la colta descrizione parla da sola, ancor più quando lo scrittore si abbandona al canto lirico del poeta che leggiamo nelle pagine seguenti:

“Dal golfo s’inerpica la terra lucana tra colli e monti, le cui vette brulle ed immacolate immerse nell’azzurro formano la gradinata gigante dinanzi alla immensa valle solitaria ed all’arco aurato della spiaggia. Dalle schiere di colline e monti, interrotte da strette pianure ubertose e da fresche valli, s’innalza repentino, come nube a Mezzogiorno, a confine con la Calabria, il massiccio del Pollino, dalla cui vetta l’occhio abbraccia un vastissimo orizzonte che comprende la visione di mezza Basilicata e spazia dal Tirreno, fino al porto di Taranto ed oltre. (..) E già emergono terre più ricche e sane, specie intorno all’oasi di Policoro, già bella di superbi e fregranti frutteti, e così in tutta la pianura ionica stanno estendendosi più fitti aranceti, albicocchi e pescheti, salutati sulle prime colline dall’antico fluttuare di ulivi, di potenti carrubi, di grandi quercie, di favolosi pini, di pruni, fichi, mandorli ed ancora aranceti e cedri”.

“Le montagne della Basilicata hanno una caratteristica tutta particolare: vette superbe dominanti panorami meravigliosi e vari, profili staglianti ed ora armonici, che a guisa di anfiteatri racchiudono ridentissimi piccoli laghi selvaggi. Spesso città antiche, belle e custodi di opere d’arte d’immenso e pregevole vale subliminano queste alture; l’antichissima Matera dei Sassi, ricca di opere d’arte di ogni tempo d’inestimabile valore, Montescaglioso, Irsina, Tricarico, Acerenza, Venosa, Lavello, Melfi e l’aerea Potenza, che dalla sua altezza giganteggia sull’antica e gloriosa Valle del Basento e su quella ampia di rione S. Maria, verde di boschi, “boschetti”, “macchie” e giardini.

La Basilicata non è terra improvvisa; cova dentro il suo fuoco ed ha il pudore e la gelosia dei suoi sentimenti più profondi. La bontà gli è riconosciuta; la giustizia presiede a qualsiasi giudizio delle moltitudini. Capace d’impeti mistici e di lunghe vigilie, la sua gente è ragionatrice, ponderata per indole, è vigile nelle analisi e si eleva a mirabili sintesi. Vuole essere epicurea ed è di natura nostalgica. Il suo custico umorismo non uccide ed è edificatore. Vuol ridere e si accora di un niente. Ascoltatela nelle ore gravi, terra sacra ai campi; terra sacra alle opere eterne. La sua gente vi fatica senza amarezza: la stella dell’alba è salutata dal canto del boaro; quella del crepuscolo ancora sente cantare gli uomini che ritornano verso le case disperse, che il monte cova ed il cielo inazzurra. La divina natura spesso inspira il cantore popolare, che commosso trova un’alta espressione sulle labbra per la terra madre:

“Sienti,sienti! La terra mi parla chiani
sienti sta mamma antica
ca mi chiami e mi vole se songh luntani!”

Per la gente lucana la maggior vita è all’aperto, la sua primavera è gagliarda. Vediamola nel rito delle grandi opere sacre: la semina, la mietitura, la vendemmia.
I contadini di Maratea e di Acquafredda, a breve distanza dal classico lido dei templi pelipteri immortali di Paestum, come quelli delle colline del Mare Ionio, così del Pollino, Volturino, Areoso e Vulture o lungo il Bradano, Basento, Agri, Sinni e Ofanto, al tempo della mietitura del grano, verso sera quando il sole sta per giungere al tramonto, sospendono il lavoro e si inginocchiano dinanzi al sole che muore. Nella dolcezza dell’ora il massaro intona una Ave Maria alla quale i mietitori rispondono in coro sollevando le falci verso il sole : “Siano lodati Gesù e Maria”.

Le tradizionali visioni mistiche ridestano la gente nei campi il contadino è tutt’uno con la sua terra, alla quale la sua vita è connessa immutabilmente. La ama profondamente. Conosce il cammino della sua casa, conosce l’ombra dei suoi pagliai. Ogni angolo dei suo campi, ogni fossatello, ogni vite, ogni olmo gli sono familiari ancor più della faccia della donna sua. E questo gli basta. Egli non può far passare il giorno che non percorra i suoi campi fra le siepi ben tenute; va fra la nebbia o la neve; studia i frusoli delle sue viti, le gemme dei suoi peschi, il verde dei grani pallidi, che debbono cespire. Non chiede di più. Emigra; arricchito ritorna in patria e riprende a lavorare il suo lembo di terra, al quale ha dato una fisionomia, un nome e un cuore. Riprende l’opera di rinascita a favore del suo tempo.

Risuonano nel suo cuore di uomo antiche melodie. E così nei vecchi orti di Venosa ove grandi massi poligonali, fra torri, dominano il Vallone Ruscello, formando insieme il loro miracolo di poesia e di realtà, di presente e di passato, di rovine classiche e di architetture medievali, io potetti ascoltare un canto leggere, fresco, di seminatori:

“Lu cieli si inondava di grazia
mentre la selva mormorava cupa.
A Vergine Maria s’assettò
all’ombra dell’auliv; tutt’e frasche
abbasciannisi vasaren’a Gesù.
Evviva Maria
e chi la creò.
Lu cieli si inondava di grazia
mentre la selva mormorava cupa”.

La bella strofa mistica, come un canto umbro, pareva munita, pel suo volo, di candide ali, fra i severi ruderi latini. Un altro canto mistico nel periodo dei pellegrinaggi a San Miche le del Gargano ed alla grotta di San Michele di Monticchio, richiama il culto bizantino per San Luca Corleone e per San Vitale – che dopo aver difeso leoninamente Armento contro i Saraceni, maceravano le loro carni nelle grotte basiliane del torrente Melfia (Vulture), ove dipinsero santi ieratici e simboli del Cristianesimo – e ricorda ancora la tradizione dei cavalieri longobardi e dei loro rappresentanti spirituali, i monaci latini, che ne arricchirono la leggenda introducendo nell’Italia meridionale il culto per San Michele Arcangelo, il cristianizzato giovane Sigfried uccisore del drago, al quale furono dedicati santuari sulle cime dei monti della Lucania. La dolce melopea religiosa così risuona richiamando l’influsso del genio artistico locale:

“San Michele lu potente
ha uccisi lu serpente;
l’ha uccisi p’amore di Dio.
Evviva, evviva San Chele mio.
E San Luca lu viggente.
Salva, salva tu Armento;
salvalo tu per amore di Dio
Evviva, evviva San Luca mio”.

Ogni regione si sa ha il suo aspetto particolare, la sua personalità che la distingue e quella di Basilicata/Lucania non va del tutto confusa con quella di Sicilia o della Campania, pur dividendo con queste talune somiglianze e evidenti scambi, se vogliamo, invevitabili con la Iapigia per il grande dominio culturale che sul litorale ionico ebbero con le città della Magna Grecia, le cui superstizioni sopravvivono nel sacro e nel divino di oggi. Con ciò si vuole qui offrire un prezioso materiale di demopsicologia con l’intento di studiare l’anima popolare e di offrire alcuni documenti dei valori spirituali della razza, senza escludere quelle che sono le tradizioni pagane tutt’ora ‘vive’ sul territorio. Molti paesi sappiamo, offrono un largo campo di osservazione per quanto riguarda i costumi, i canti, i riti occulti e l’arcano dei ricordi orali, che attraversano la favolosa antichità del medioevo:

“Usanza senza dubbio del periodo di Metaponto, di Siris, di Heraclea, di Paestum, è il rito che si pratica lungo la costa jonica di Pisticci, di Policoro, di Nova Siri e sui colli del Senise, di Sant’Arcangelo, di Ferrandina, Colobraro (in Lucania), e di Calimera, di Melpignano e di Castrignano (nella Iapigia) e che consiste nella celebrazione delle ‘prefiche’ sui morti. Sono donne, dette ‘repite’ che, a somiglianza delle antiche ploratrici, piangono e cantano lungamente sui cadaveri dei defunti” (C. Valente, op.cit.). A questa usanza l’etnografo Ernesto de Martino dedica nel libro “Morte e pianto rituale” (Boringhieri 1975), un intero capitolo: “Il lamento funebre lucano”:

“Può sembrare strano che una ricerca storico-religiosa sull’antico lamento funebre rituale si apra con una giustificazione metodologica che riguarda una particolare indagine etnografica. (..) Un procedimento così eccezionale, e a prima vista così discutibile, è certamente bisognoso di una giustificazione che riguarda la determinata ‘tecnica del piangere’ come quella messa in atto nel Sud, cioè un modello di comportamento che la cultura fonda e la tradizione conserva al fine di ridischiudere i valori che la crisi del cordoglio rischia di compromettere. In quanto tecnica (quella del pianto rituale) che riplasma culturalmente lo strazio naturale e astorico (lo strazio per cui tutti piangono ‘ad un modo’), il lamento funebre è azione rituale circoscritta da un orizzonte mitico”… (De Martino, op.cit.)

Riproduco un brano del lucubre pianto trascritto nel volume di C. Valente:

“Chi sa mai, chi sa mai la mamma tua
quando essa verrà?
Quando tu vedrai l’uomo
arare nel mare!
Chi sa mai, chi sa mai la mamma tua
in che tempo tornerà?
Quando vedrai l’uomo mietere
in mezzo al mare.
Chi piange, chi piange alla vista
chi piange più assai?
Colui che ha perduto la sua gente
e gli strappa l’anima.
Oh le genti, le genti nostre
che erano tante, tante …
Le nostre case si svuotarono
e ne son piene le sopolture.
Oh le nostre genti, le genti nostre
che erano tutte in armonia!
Le nostre case si svuotarono
e ne sono piene le chiese.”

Questa tradizione richiama la scena delle prefiche disegnata su un ‘askos’ di stile geometrico risalente al V secolo a.C. trovato a Lavello e custodito nel Museo di Reggio Calabria ma ripresa in parte dalla ceramica lucana dipinta sul quale è delineato un corteo funerario con cinque figure femminili, delle quali tre ugualmente vestite di bianco e due figure muliebri vestite di nero e in atto di piangere.

“Sempre in quanto tecnica del piangere il lamento funebre antico concorre, nel quadro della vita religiosa (di un popolo o pure solo di una razza), a mediare determinati risultati culturali; ciò significa che attraverso i modelli mitico-rituali del pianto sono mediatamente ridischiusi gli orizzonti formali compromessi dalla crisi, e cioè l’ethos delle memorie e degli affetti, la risoluzione poetica del patire, il pensiero della vita e della morte, e in genere tutto il vario operare sociale di un mondo di vivi che si rialza dalle tombe e che, attingendo forze dalle benefiche memorie di ciò che non è più, prosegue coraggiosamente il suo cammino. (..) Tuttavia ai fini della ricostruzione il lamento (funebre) come tecnica, la documentazione funeraria antica presenta dei limiti definiti, che le integrazioni comparative non possono superare senza lasciare troppo margine all’immaginazione. Così i lamenti che ci ha conservato l’epos o la tragedia o la lirica della morte sono ormai letteratura e poesia, non rito in azione, e non è agevole raggiungere il lamento come rito partendo dalla sua elaborazione letteraria e poetica.” (De Martino, op.cit.)

Va detto che Ernesto de Martino aveva già proposto questa tematica anche in altre ricerche, esposta per lo più nei due libri che più lo rappresentano: “Il mondo magico” (Boringhieri 1973) sull’angoscia territoriale e riscatto culturale; e “La terra del rimoprso”, contributo a una storia religiosa del Sud (Boringhieri 1961). Ed ancor prima in “Sud e Magia” (Feltrinelli 1959) interamente dedicato alla ‘Magia lucana’, ai temi della ‘fascinazione’ e della ‘jettatura’ (napoletana) entrambe ancora molto presenti nella cultura del meridione. “Il tema fondamentale della bassa magia cerimoniale lucana è la fascinazione (in dialetto ‘fascinatura’ o ‘affascino’). Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta. Col termine ‘affascino’ si designa anche la forza ostile che circola nell’aria e che insidia inibendo o costringendo chi la subisce”:

“Chi t’ave affascinate?
L’uocchie, la mente e la mala volontà.
Chi t’adda sfascinà?
Lu Padre, lu Figliolo e lu Spiritu Sante.”

A cui fa seguito lo scongiuro rituale:

“Duie uocchie t’hanno affise
Tre te vonno aità
Sant’Anna, Santa Lena, Santa Maria Maddalena.”

In aggiunta si mormora:

“Scende la Madonna co’ le mane sante
In nome del Pdre, Figliuolo
e Spirito Santo.”

“Al contrario i relitti folklorici del lamento antico ci permettono ancor oggi di sorprendere l’istituto nel suo reale funzionamento culturale: e ciò che la documentazione antica ci lascia soltanto intravedere o immaginare, cioè il lamento come rito in azione, la documentazione folklorica ce lo pone sotto gli occhi in tutta la sua evidenza drammatica, offrendoci in tal modo non sostituibili opportunità di analisi. (..) Tuttavia anche se il lamento funebre folklorico ha perso il nesso organico con i grandi tempi della religiosità antica, e anche se i suoi orizzonti mitici sono particolarmente angusti e frammentari, esso può fornire ancora, almeno nelle aree trattate e di migliore conservazione, utili indicazioni per ricostruire la vicenda rituale che, nel mondo antico, strappava dalla crisi senza orizzonte e si reinseriva nel mondo della cultura autoctona.” (De Martino, op.cit.)

A questo proposito, per meglio comprendere la lezione di De Martino, riporto qui un passaggio riferito alla ‘morte’ di Vincenzo Bo da “La religione sommersa” (Rizzoli 1986):

“La ripercussione attraverso la parentela (che pure si esplicitava come dolore per la perdita, diventava, ed era, un ‘crisi di gruppo’ di appartenenza. Ciò scaturiva da certi comportamenti rituali (mitici e sociali) nei quali certamente agivano , e interagivano, componenti diverse da quelle mortuarie. Ma non c’è dubbio che in tali mitologemi e in tali comportamenti rituali, sia a livello di crisi collettiva che accompagnava ogni morte, sia a livello della tensione e dell’angoscia che apparivano radicate nel sentimento dell’incertezza e della precarietà esistenziale. La vicenda ‘morte’ aveva ed ha una motivazione predominante e prevalente, tanto che non mancano studiosi i quali, a livello di ipotesi, fanno risalire l’origine della religione al tema della morte. In questa prospettiva, le mitologie dell’al di là, della sopravvivenza, dell’immortalità, i riti di seppellimento, di placazione, di venerazione dei morti e degli antenati si fondevano nella comune funzione di risposta all’illogicità della morte; diventavano tentativi per sostituire la sicurezza alla precarietà. Così il mito assolveva una funzione salvifica nel senso che, reagendo attraverso l’ideazione mitica, l’uomo e il gruppo si riscattavano dall’angoscia esistenziale e risolvevano la crisi emergente da ogni singola morte.”

Ma mentre presumibilmente tutto questo accadeva, quale era la funzione del rito?

“Il rito – prosegue Vincenzo Bo – doveva invece soddisfare sia l’esigenza istintiva, immediata, di esprimere il dolore e il dramma del distacco (che era più intensa e naturale quanto più prossimo era il grado di parentela o il rapporto di convivenza e di consuetudine), sia quella di risolvere il problema di fondo che stava nella crisi e nell’angoscia provocata dall’evento. Entro queste linee vanno pure riletti i miti dell’origine della morte e dell’immortalità primordiale, i miti di trasformazione della morte in passaggio all’immoertalità (si pensi, per esempio, nell’ambito dei miti più conosciuti ed elaborati, all’Ade pagano, ai misteri orfici, alla trasmigrazione delle anime ecc.), i miti della sopravvivenza (si pensi ai fantasmi, agli spettri, ma anche ai morti che ritornano, alle anime, alle ombre). Entro tali linee vanno pure riletti i fenomeni di ritualizzazione del duolo e del lutto, trasformati da ‘fatto primario istintivo’ (dolore per la morte e per il distacco) in una manifestazione che, seguendo schemi obbligati, tradizionali che, non solo si rende necessaria anche quando il fatto istintivo viene meno, ma può essere delegata a terzi, come a detentori delle giuste tecniche del duolo, appunto: la prefiche.”

Sono legati al rito funebre anche i numerosi ‘pianti’ mistici appartenenti alla Lucania mistica:

“U chiande de Marie Addulurate” (in C. Valente, op.cit.)
“Chiange Marje la povera donna,
ca la sua figghie è giute a la cunnanne.
- No lu chiangenne cchiù ca non ce torne.
È giute a la case de chidde teranne.
Tante lu chiande ca fasce la Madonne
Curre Giuanne a cumpurtà Marje!
- Curre Giuanne, a quantamore me puorte
Scem’a a bedé ci lu fighhie m’è bive o muorte
- O vive o muorte lu travaraje
La via ch’amme fatte amma da faje.
. . .

“Marje chiange Gesù” (in C. Valente, op.cit.)

“Figlie, t’adora pe sta santa téste,
de crone de spine ‘ncurunate fuoste
- Ohi figlie, ohimé!
Quante patì Gesù per mè.
Sono stata io l’ingrata
O mio Dio, perdone pietà.
- Figlie, t’adore pe sta santa fronte
me parà lu sole quanno sponte!”
. . .

Scrive ancora C. Valente: “Ma, oltre alle laudi severe della Settimana Santa, fra i monti della Lucania risuonano altri canti mistici, lì ove c’è anima, c’è sentimento, c’è dolore, ove c’è finalmente poesia. (..) Come nelle laudi dei poeti umbri, nei canti mistici l’espressione nuda del sentimento ha tutto l’impeto e il singulto della pura verità umana e l’amore divino non è che un riflesso dell’amore umano.”

Richiamo qui un leggero e fresco canto mistico della gente lucana:

“Stedda Mattutina” (in C. Valente, op.cit.)

“È fatte juorne e sie lu benvenute
beneditte sia Die ca l’ha criate
Ti preje Gesù mje de darme aiute
concedami la pac’e la virtute
inta a chesta santa sciurnate.”

Famosi sono anche i riti nuziali, quelli per il Calendimaggio, le Cavalcate, le Processioni e i Pellegrinaggi che vengono talvolta riproposti con grande partecipazione popolare, come: “Il carro trionfale di Matera”, “Il pellegrinaggio di Fondi” e “La processione dei Turchi a Potenza”; quella per il “Corpus Domini al Santuario di Viggiano”, e la “Leggenda dei petali” (I pip’l):

È questa una leggenda di alta ispirazione mistica in cui si narra: che nei tempi del martirologio cristiano una popolana di Potenza, nel lavare la biancheria giù al fiume Basento, ricordandosi che là vicino era stati suppliziati dodici martiri cristiani venuti dall’Africa, volle prendervi qualche loro reliquia – come scrive Paolo da Grazia: “Raccolse dei fiori inzuppati del loro sangue e se li portò a casa e li conservò in una pezzuola di candido lino. Dopo parecchi anni trovò i fiori ancora verdi come se fossero stati colti allora. Stupita li portò ad una asceta perché li conservasse in chiesa. Il ministro di Dio così fece e li conservò. E da allora ogni anno, il primo di settembre, in occasione della festa per i Dodici Martiri, si mostranvano al popolo i fiori verdi che aprivano i loro bocciuoli o petali, detti “pip’l”. Per questa tradizione d’ispirazione religiosa e di candida fede migliaia di giovinette del popolo, per la festa del Corpus Domini, dalle finestre e dalle terrazze di via Pretoria, adorne di damaschi, di tappeti e di coperte di seta, come un leggiadro e fantasioso mosaico di broccati, di oro e di ricami, salutano il passaggio del Santissimo sollevato dal Vescovo sotto una pioggia di fiori.”

E quindi propongo un canto ‘umoristico’ legato a “Lo scaricavascio” di Melfi con significazione storica risalente al 1799, epoca in cui i maggiorenti melfitani, in luogo di organizzare una strenua difesa della città, preferirono aprire le pèorte di casa propria alle orde devastatrici del Cardinale Ruffo. L’atto ritenuto vile, urtò il sentimento della popolazione che, non potendo altrimenti esprimere la propria indignazione in quei tempi di scarsa libertà, riuscì a significare nel canto detto dello ‘scaricavascio’, la insicura stabilità del dominio paesano che i maggiorenti, i sanfedisti, avevano ottenuto dal favore del Ruffo in cambio della resa. Il gaio ritornello – scrive A. Cantela – cantato da otto giovani contadini, quattro dei quali danzando sostengono il peso degli altri quattro, che si levano in piedi sulle spalle dei primi, tenmendosi stretti l’uno all’altro con le braccia. Nel balletto faticoso delle improvvisate torri umane che ne conseguono, la fertile fantasia popolare ricamò alcune strofe d’occasione i cui versi rivelano ai dominatori che se il popolo si sottrae al gioco del loro dominio, il capitombolo è inevitabile. Lì dove ‘Pizzic’Andò’ sta a significare: con tutto il pericolo, balliamo pure!.

“Canto per lo ‘scaricavascio’”

“Vuoie ca state da sopra
Statev’attinte ancora: cadite …
Se si spezza lu ram di sotto
Ve ne sciate di capisotto.
Lu vide lu scaricavascio?
Lu vide e sembra mo
Pizzic’Andò, pizzic’Andò.”

Ciò non toglie che in Lucania non si canti l’amore …”Il canto sgorga su dal cuore innamorato e trae ispirazione dalle tempeste dell’anima. Il popolo canta ed esprime la sua consolazione della fatica, la gioia del vivere e la sua fede con immagini delicate e pensieri pieni di tenerezza. A volte la poesia si fa profonda, più vivace e dolorante e accenna a intime lotte in descrizioni di vita popolare che raggiunge un alto valore lirico. Nenie nostalgiche e canzoni d’amore rivelano una malinconia pensosa, che è poi l’essenza dell’anima lucana, gaia talora solo in superficie, come negli esempi di ‘fronna’ che seguono:

“Canzuna nova” (in C. Valente, op.cit.)

“Voghhiu cantari ‘na canzuna nova,
pa gilusia ca mi struggi u core.
Gioia, l’amuri toj strittu mi teni!
Vurria tuccari l’unna ri lu mari
vurria vulà pi li cieli sireni.
Vurria cent’uocchi pi ti riguardari
milli cori pi ti vulì chiù beni.
La gilusia mi consumi u core
e ti voghhiu cantà a canzuna nova.”
“Quann nascisti tu” (in C. Valente, op.cit.)

“Quann nascisti tu nascì la rosa,
nascì la pampanella e la cirasa;
intra sta strada nc’è na rinninell’
ca se ni pregg’ di lu su vulà,
en c’è nu falcunetti pint’e bell
ca va ‘ngiri ca ta d’ancappà.

Intr’a sta strada nc’è n’arb’ de rose,
ca pi l’addore non si pote sta;
dincill’a lu patrun’ ci li cogghi,
nun li facesse cchiù spampanà,
mena lu vient’ e tutt l’arravoggh
tutt’ le verd’ frunn’ nt’erra vonn.”

Pei campi dove le viti e gli argentei ulivi si diradano verso le montagne del Pollino e del Serino, corona di balze e di boschi, fanno coro al canto villereccio, l’armonia delle fagose, il suono idillico delle campanelle, e lo scroscio dei torrenti …

“Lu rusignoli d’amori” (in C. Valente, op.cit.)

“Rusignoli d’amori, rami, rami
fai na cantata, t’arriposi e voli,
cova la compagnedda, e tu la chiami
pi lo toi canti cchiù bene tè voli.
Lo mj ciatuzzi a paesi luntani
chianci, lo chiami e turnari non voli,
se fossi rusignoli, monti e chiani
pesseria per truvarla intra dui voli.”

Famose sono anche le ninne-nanne e le serenate:

“Fammi la ninna, bello di la mamma
Sii piccininni e th’ai da cresce granne.
Famme la ninni, bello mmio e dduormi
Mò so ‘ncagnato, e ti chiami lu suonno.
Lo suonno mm’ha promiso ca vinia,
Mò mm’ha gabbato e sta mmienzo la via”
. . .

“Lamento d’amuri” (in C. Valente, op.cit.)

“Oh quanta vote m’hai fatti vinire,
sott’a sta finesta a sospirare.
Mmai fatto consummà da li sospiri,
nun t’hai voluto ‘na vota arranzare.
Arranzati ‘na vota pe’ gentilezza,
doi parole ti voglio addumannare:
‘la mmia billezza no’ la puoi avere,
ca si fraschetta, e no’ la sai godere.”

“Contrasto” (in C. Valente, op.cit.)

“Che t’agge fatto chi mmi port’u musso?,
quanni mi viri cu ll’uocchi t’arrasse.
Scocca di rosa fatta di un mazzo,
o ronna carricata di billezza.
Quanni mmi guardi cu’ l’uocchi m’ammazzi,
mi viri ‘ntra lu fuoco e mmi ci attizzi.
Tu mm’hai ligato cu’ ‘nu lazzo,
cu ‘nn capill’biondo di ‘ssa trizza.
Tu mm’hai ligato, e nu’ mmi pozzo scioglie,
cumme a fili di seta mm’assottiglio.”

Con queste semplici canzoni d’amore, cantate come messaggi da una gioventù priva di ogni distrazione, il cui pane e sale della vita era nient’altro fatto di ansie e di lavoro, gli stati d’animo di desiderio, di sdegno e d’odio si susseguono e trovano una loro vena poetica schietta e spesso insolita di giovinezza ardente e, soprattutto, vigorosamente autentica. E sia benedetta questa luce fatta di passione, di sentimento puro inestinguibile. Tuttavia, la Basilicata/Lucania non è solo questo. Con questo articolo pur breve, tanto ci sarebbe da parlare, voglio salutare la gente tutta e dare il benveuto a Matera città d’arte che in questo anno 2016 è stata designata dall’UNESCO quale ‘Capitale Europea della Cultura’. E il ricordo va altresì allo studioso Concetto Valente che voglio ringraziare per il suo libro più volte citato e dal quale ho tratto a piene mani ogni sfumatura, e che tra le altre interessantissime cose di cui egli ci narra, così descrive la città di Matera:

“Una nota possente del paesaggio materano (..) è dato dalle ben note gravine scavate nei tufi e nei calcarei compatti – nelle voragini che separano le doline delle murge scendenti a gradinata verso il mar Ionio. La città si distende sui declivi di due valli profonde scavate dalla natura nel tufo seguendone la forma ed il declivio, chiamate Sasso Barisano e Sasso-caveoso. È dominato il Sasso-caveoso da un irto e severo scoglio con ai piedi una chiesetta bizantina scavata nella roccia. E le case dei Sassi, in gran parte aperte nelle doline tufacee, sono costruite in modo che l’una serva di base all’altra. Serpeggiano ripidi viottoli fra abitazioni primitive dominate da rocce e con scalinate sostenute da rozzi archi rampanti. Le caratteristiche abitazioni trogloditiche sostengono spesso ampie e impervie vie che si incurvano fra i comignoli delle case. L’interno della casa trogloditica è rivestito di intonaco ed ha lo stesso arredamento della casa comune. (..) Del sentimento religioso della gente lucana, le cappelle, le edicole e le croci, presenti nelle costruzioni, ci parlano le leggende sacre, le grotte aperte nei cupi recessi del monte Vulture, del monte Raparo e delle gravine di Matera, (..) ma perché il ‘frutto’ dell’arte si coga, conviene attivare questo semplicissimo criterio: laddove fioriscono forme speciali d’arte esse dovranno rinnovarsi, essere prese, continuate, adattate ai gusti dei tempi nuovi, senza che perdano nell’uso nulla della loro essenza, della natura propria della razza che vi impresse spontaneamente i suoi caratteri, le sue intime tendenze, le sue idealità.”

E con questo commiato, che a me sembra il messaggio più cospicuo e appagante dell’opera di Concetto Valente, scomparso nel 1954, al quale l’insigne Paolo Toschi ha voluto lasciare una dedica in cui gli riconosce la nobiltà della figura di studioso e di poeta, saluto e ringrazio il figlio Giuseppe che ha permesso di accedere all’opera del padre con la citata pubblicazione. Ed anche ringrazio tutti voi che mi leggete su larecherche.it

Concetto Valente (1881-1954) nativo della Lucania, fu direttore del Museo Archeologico Provinciale della città di Potenza, dal 1928 al 1954 anno della sua morte; colui che più di tutti si occupò di arricchire le collezioni artistiche museali. Nel 1925 ottenne la medaglia d’oro dei “Comuni d’Italia” dal Ministro della Pubblica Istruzione; ancora la medaglia d’argento nel 1942 concessa sempre dal M. della P. Istruzione per la diffusione ed elevazione della cultura e dell’educazione nelle arti e nella tutela del patrimonio artistico e storico della Nazione. Infine, nel 1955 è stato insignito della medaglia d’argento alla memoria, dal Presidente della Repubblica per i benemeriti della cultura. Nel 1932 curò la “Guida artistica e turistica della Basilicata” una monografia con testo a stampa, riproposto poi con aggiunte nel 1948.





















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