GOU (AFTERTASTE)
di Manuel Paolino
La poesia
(dietro la siepe gialla)
è l’Alchimia.
Se un giorno dovessi precipitare
al di là
degli ermetici sigilli,
(sembra che a ritroso mi stia muovendo)
sarà pago
il mio destino?
(Spinto dalla corrente Antica).[1]
Una delle cose che penso di aver capito fin qui – ma chissà quante altre ho colto, quante mai avranno risposta e quante invece non ho ancora compreso – è che se la Poesia diviene un potere dell’uomo/poeta, capace di carpire lo spirito della musa dai luoghi, dalle storie, dagli oggetti, dalle cose nello spazio attorno, è perchè costui, scelto da quell’ignoto dove le stesse parole vengono forgiate, liberate, e verso il quale sempre sarà istintivamente sospinto, è passato per un addestramento fatto di innumerevoli possessioni, subitanee, inattese, alle volte attese. Il poeta si trasforma non soltanto in un essere umano con un dono, ma in un uomo speciale che utilizza un dono a seconda della propria volontà, in sintonia con la musa. In questo senso sì, allora, egli può essere paragonato ad un veggente.
Se in tutti questi anni ho trascorso le giornate in compagnia della purezza di Ungaretti, e perchè mi preparavo alla follia del crepuscolo di Rimbaud, all’intenso vivere delle notti con Baudelaire e Verlaine, al brillio delle albe insieme a Pascoli e Leopardi, all’acquietarmi fra le ali di Poe, a divertirmi con l’irrequietezza di Catullo, a consolarmi tra i versi di Salinas e Lorca.
Quello che io cerco è la veggenza, non lo nego. Ho scoperto la possessione, il potere infiammante dell’ispirazione, il caos incontrollabile della Poesia, e poi ho capito che si può anche domare, come un lupo che ti scalda quando hai freddo, ma che rimarrà sempre il primogenito della Natura primordiale e più selvaggia. E visto che siamo in vena di confessioni, io confesso il mio amore in particolare per Baudelaire; non perchè ami meramente il lato oscuro delle cose, ma al contrario per la divina luminosità poetica dei suoi comandamenti, legati a radici profonde, sotto il peso di una terra feconda e solidi rami che giungono, seguendoli fino in fondo, dritti alla punta del mio naso.
Non posso nemmeno pensare di aprire gli occhi e scrivere versi senza avere ben chiaro che la realtà che verrà da me dipinta sarà quella del poeta. «Vita e la realtà divengon giunte con l’umana porta», citando l’Ermete di una mia lirica. Simbolismo, antirealismo, ricerca dell’ignoto attraverso le forme, la lingua, propria di quel destino che mi compete. Ma propria anche di un uomo che la realtà osserva, vive, e da essa trae ispirazione; lasciandole alle volte la parola sotto la sembianza di una visibile cornice, o di un loquace dipinto. Nessun disordine dei sensi mel mio caso, ma la poetica indagine di un esclusivo dono.
Riguardo al realismo dunque, millantato da alcuni come fondamento obbligatorio della poesia contemporanea (e del suo linguaggio), basterebbe qualche mia poesia de «Il sentimento del veggente» per infrangerne la corrente; oppure, si badi bene, per confonderla e intorpidirla d’inchiostro.
Vivo con la consapevolezza che non sarò mai solo in questa Traversata, ma insieme ai miei poeti. E con te Lettore, con il quale ora mi confido.
La mia capacità di gestire il verso è frutto di lunga e paziente ricerca della parola, del suono, dell’armonia. I versi vengono dettati, poi segue il labor limae. Il percorso poetico è un cammino; taluni potrebbero considerare le mie prime liriche più acerbe rispetto alle altre (chissà di quanti però incontrano il gusto), ma si tratta di un’acerbità limpida, sana, spontanea, derivante direttamente dall’ispirazione, unica e sola padrona.
Quando sento parlare di editing sulle poesie penso naturalmente al doveroso e scrupoloso lavoro di lima da parte dei poeti sui loro componimenti, capace spesso, come nel mio caso, di non esaurirsi facilmente ma anzi di perdurare negli anni. Quando sento parlare di editing sulla poesia da parte di case editrici mi si accappona la pelle.
È vero, ci sono poeti e non poeti, poeti che possono piacere altri meno. È eticamente scorretto correggere un poeta, a meno che, ancora, non abbia appreso l’uso della punteggiatura.
Ho sentito dire, per esempio, che son «è brutto». Ma se è lì, lo giurerei, è perchè lì deve essere; se è desueto ben venga... non è scolastico (termine che non si può associare alla poesia), e oggettivamente sostengo, «non è oggettivamente brutto». Lo stesso Pascoli[2], tra gli altri Maestri – unici ad avere la parola – forse, sarebbe daccordo con me:
Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive;
gli altri son poco lungi; in cimitero.
Infine, vorrei dire, che il confronto tra poeti sì è importante; e chi vuole, fabbrichi pure un suo teatrino, dal sipario nero, con gli echi rimbombanti dei suoi versi. Siamo poeti. Chissà non lo faccia anch’io un giorno. Ma non impolveriamo la poesia, vi si posa sopra già tanta polvere (dovrebbe essere questa, a mio parere, la conseguente responsabilità di un esclusivo dono); importante davvero, e goduria, è invece leggere i poeti. Cercare, ispirarsi, migliorare, o meglio, marciare.
Muoio dal desiderio di capire meglio Rimbaud, di conoscere e dolcemente penetrare Mallarmé, di scoprire i versi di Quasimodo, d’immergermi in Huidobro, di viaggiare fino ai poeti della Repubblica Dominicana, d’esplorare i misteri di Ermete Trismegisto, di tradurre. E da quassù posso vedere una città brulicante di versi, accendersi in un liquido, d’idromele, dai molteplici sapori.
[1] La poesia si intitola Corpus hermeticum e fa parte della mia raccolta denominata Il sentimento del veggente.
[2] La lirica di Giovanni Pascoli è Romagna, vv. 49-52.
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