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di Teresa Cassani
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Pubblicato il 27/02/2022 13:33:33

ACCOMUNATI

La parrocchiale è già occupata per metà da un gruppo di persone, nonostante sia arrivato piuttosto in anticipo rispetto all’orario stabilito per la messa.
Lui accenna a un rapido saluto, raggiunge uno dei banchi a ridosso del tramezzo che delimita l’area absidale e si inginocchia. Si sente scosso da una certa commozione e guarda fisso davanti a sé le piccole fiamme delle candele.
Congela i pensieri facendosi avvolgere dall’odore di cera liquefatta mista a incenso e dall’atmosfera raccolta dell’interno, interrotta appena dai bisbigli dei convenuti.
È solo un attimo perché, quasi subito, riattiva nella memoria i frammenti che lo riportano al motivo del suo essere lì o, meglio, sono i ricordi stessi con tutta la loro prepotenza a riaffacciarsi.
Gli si staglia di fronte l’immagine della Trincera, di quando, bambino, l’aveva vista per la prima volta accanto al padre che gli mostrava i segni della rappresaglia, e lui imparava che i muri non erano andati distrutti, come invece quelli di altre baite e rifugi, perché un violento acquazzone aveva spento le fiamme appiccate in fretta e furia dai nazifascisti.
Serba il ricordo delle pietre annerite di quella baita e continua a immaginare gli ammassi delle travi carbonizzate e delle mura diroccate degli altri edifici sparsi tra le alture, ridotti a ripari impossibili per i partigiani.
Le prime formazioni si erano costituite sui monti poco dopo l’armistizio.
Il padre diceva che in paese non era un segreto, che la gente parlava esprimendo pareri contrastanti su quei “giovani coraggiosi” o su “quegli imboscati renitenti alla leva”.
Lo zio, tornato dal fronte in ottobre, era salito alla Trincera con altri: non voleva ingrossare le fila degli sbandati ma offrire il suo contributo alla Resistenza.
-Carlo, sei qua? - la voce di Giuditta lo scuote- posso mettermi accanto a te?
Lui fa cenno di sì con il capo.
Lei ha già gli occhi umidi, mentre prende posto nel banco che scricchiola. Pensa a villa Serena, all’interrogatorio del capitano, alla nottata interminabile durata una vita e costata altrettanto a quei poveri sei, tra cui il padre.
I pensieri si arrestano allo scampanellio che dà inizio alla Messa. Giuditta immagina per l’ennesima volta don Arturo mentre accompagna i sei davanti al cimitero per l’esecuzione.
La navata è piena di gente.
Carlo attende le parole del prete. Vede lo zio alla Trincera con la gerla dei medicinali sulle spalle che cade sotto il fuoco dei repubblichini.
Anche gli altri convenuti attivano memorie, fanno scorrere immagini di rastrellamenti, incendi, urla, spari.
Ora questa Messa serve a commemorare, a ricordare, a dare testimonianza.
Soprattutto a sentirsi accomunati dallo stesso sentimento, dallo stesso irrinunciabile auspicio, dallo stesso potente desiderio.

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