Pubblicato il 15/02/2022 15:42:47
NE BASTA UNO
Aveva accettato l’incarico alle Superiori. Un liceo in centro città, sul cui prospetto compariva l’insegna dell’Istituto a caratteri d’oro. La preside era una signora elegante e cortese che mirava al buon andamento di ogni aspetto organizzativo e perciò curava con tenacia le relazioni, presenziando a tutte le assemblee e consessi. Lui sarebbe subentrato a un docente che aveva imperniato la propria didattica sull’ esclusiva applicazione del disegno geometrico. Questo, accanto alla trattazione delle materie accademiche secondo una logica sostanzialmente incasellante, l’aveva convinto a proporre, al posto dell’ora operativa fatta di righe e squadre quando non di auto cad., la storia dell’arte a pieno orizzonte. Voleva ripercorrere il cammino della cultura e della civiltà in Italia, che si era concretizzato in opere architettoniche e pittoriche davvero superbe in tutta la loro valenza estetica e identitaria. Suscitare e inculcare il gusto e il senso del bello era diventata l’intima impellente urgenza del professor Fontanesi, avvilito dal freddo tecnicismo e in più disgustato dagli orrori dei graffitari che imbrattavano i muri della sua bella città: i quali, come spesso ricordava, erano stati stigmatizzati, tra gli altri, anche dallo stesso Calvino, uno scrittore che pure tendeva a riconoscere le armonie nella complessa architettura della realtà. Il primo giorno in cui fece ingresso in classe si presentò con il libro di Goethe sottobraccio, “Viaggio in Italia”, con l’intenzione di rimarcare l’importanza del patrimonio artistico, presente nella penisola, apprezzato e valorizzato soprattutto dagli stranieri. Fontanesi voleva prendere abbrivo da uno scrittore che, avendola guardata attraverso il filtro artistico, era stato determinante nell’affermare un’idea dell’Italia che ne esaltava la bellezza dell’arte oltre che della natura. Goethe aveva realizzato un’opera letteraria ma con quel suo viaggio mirava a ricercare, fra le colonne e le vestigia più intatte, la testimonianza di una civiltà eccelsa. Venezia era la pittura del Canaletto, Vicenza era il genio del Palladio, Villa Valmarana gli affreschi del Tiepolo. E Bologna era la Santa Cecilia di Raffaello, Cento era il Guercino e poi c’erano Firenze, Roma, Napoli con i loro trionfi, quindi Segesta e Agrigento con i templi, e poi, e poi... Fontanesi viveva l’estasi suprema mentre commentava i passi che citavano le opere dei grandi, dagli esponenti del Manierismo a quelli del Barocco, a quelli dell’Arcadia letteraria che avevano ispirato la pittura di Tiziano e anche del Guercino. Gli studenti lo ascoltavano, forse o soprattutto perché incuriositi e leggermente divertiti dal gesticolare, a volte un po’ scomposto ed enfatico, dell’insegnante. Il quale, in vista della verifica di valutazione, aveva assegnato una ricerca sulle città d’arte italiane. E ne erano usciti dei lavori discreti, così come discreti, se non buoni o ottimi, erano risultati gli esiti delle verifiche di fine quadrimestre. Fontanesi era più che mai convinto della presa esercitata. E così, aveva deciso di andare oltre, eleggendo l’istituto in cui insegnava a sede di un convegno su un autore che amava e di cui avrebbe presentato lo stile e le opere: Giovanni Segantini. Aveva distribuito materiali e locandine, illustrato la biografia del pittore paragonabile a un romanzo, approfondito il discorso sul Divisionismo, sottolineato l’epica del lavoro dei campi di millettiana memoria, aspetto quest’ultimo che sentiva di adorare per le sue radici antiche, così come adorava le scene pastorali di Virgilio improntate ai modelli greci. La partecipazione all’iniziativa, tuttavia, non avrebbe costituito elemento di valutazione tanto il professore era certo dell’autentico e spontaneo interesse suscitato. Già si prefigurava la scena: un’aula magna gremita, con le ali degli studenti ad occhi spalancati in trepida attesa del prof da cui attingere arricchimento. E, invece, il giorno del convegno, Fontanesi dovette constatare che il pubblico convenuto nella sala, deputata alle manifestazioni culturali, era costituito per la maggior parte dagli estimatori della pittura e della storia dell’arte, molti dei quali suoi amici, dalle autorità locali e dalle figure istituzionali della Scuola. C’era soltanto uno studente di quinta, invitato dalla preside a sedere in prima fila. Un ragazzo timido, non particolarmente brillante nelle materie, ma con una forte carica affettiva ed emotiva, e con un ardore d’altri tempi, un tipo a metà tra Nemeczek di Molnar e San Domenico Savio. Fontanesi, che era piuttosto espansivo e impulsivo, gli si avvicinò per stringergli la mano. -Meno male che almeno ci sei tu! – gli disse di slancio- ma i tuoi compagni, come mai non ci sono? – aggiunse con una certa apprensione mista a delusione. -Non lo so- rispose lo studente, mostrando un’aria seria e partecipe. - Eh, già, non lo sai… anch’io non lo so- e il prof scosse la testa rammaricato. -Beh, a dopo- disse repentino e voltò le spalle al ragazzo per prendere posto davanti ai microfoni. Durante la prolusione del Capo di Istituto, però, Fontanesi, che considerava le lezioni di storia dell’arte un evento salvifico, si ricordò che, dei dieci lebbrosi miracolati, solo uno era tornato per ringraziare Gesù. E allora pensò che ne bastasse uno. Quell’ uno che, insospettabile, adesso dimostrava di aver accolto con grazia il suo messaggio.
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