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Perfetti sconosciuti un film di Paolo Genovese

Argomento: Cinema

Articolo di Gio-Ma 

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Pubblicato il 09/04/2016 09:02:03

‘PERFETTI SCONOSCIUTI’ - un film di Paolo Genovese.

Per quanto il film mi sia piaciuto e m’abbia divertito faccio appello a tutti coloro che cercano una qualche divagazione nel cinema nostrano, così: ‘tanto per distrarsi un po’ dal tran-tran quotidiano’. Spesso si ha la sensazione che non si abbia più niente da dire mentre, invece, riusciamo a gridare (si fa per dire): ‘eccellente!’ di un film appena gradevole, e lo facciamo con disinvolta spudoratezza, solo perché il linguaggio usato, adeguato al nuovo che incombe, si è sporcato dall’uso comune e volgare che ne facciamo. Ma il film di Paolo Genovese di cui oggi si parla anche a sproposito, è tutt’altro che volgare, direi semmai convenzionale riguardo ai contenuti, per quanto nello standard di una certa filmica che passa da Francesco Miccichè a Checco Zalone, e che da Verdone/Albanese con un salto pindarico, s’avvia verso un ultimo quanto scialbo Woody Allen.

Se la colpa possa attribuirsi alla deregulation e quindi alla globalizzazione che ci rende tutti possibili sostituti degli altri, (scopiazzatori forse sì forse no), è cosa certa che è figlia della decostruzione in atto che, tra sostituzioni e rinvii per i quali non è possibile alcun approdo ad una ‘presenzialità’ ultima, conseguentemente rende tutti paranoici o, se preferite, ‘paranormali’. Quale che sia la ‘normalità’ non azzardo qui neppure a cercare una definizione, fatto è che ciò che forse designava il pregio di certi comportamenti (umani e convenzionali) oggi è diventato un difetto, la società stessa sempre più disumana, sempre più ‘liquida’, ancor più direi ‘metafisica’, conseguentemente alla sua affermazione e al suo riconoscimento significante. La conseguenza? Scetticismo e indifferenza, qualunquismo e incredulità verso tutti e tutto che rientrano nel ‘nichilismo’ di quella società che ci siamo dati e in cui ci troviamo a vivere.

Una ‘vita’ febbrilmente vissuta senza cognizione delle ‘diversità’ possibili? O meglio, formata da due o più realtà contrastanti, nessuna delle due o forse entrambe, autentiche: “purché aiutino a nascondere quella che fino a ieri chiamavamo ‘paura’. L’equivalente di un ‘mettersi in disparte’ o di una ‘messa in disparte’ da parte degli altri, che da sempre spaventa. Meglio l’ipocrisia di far finta di non vedere (?); la simulazione di non aver compreso (?); la doppiezza dell’insincerità (?); la falsa necessità del tradimento? No, il film di Paolo Genovese, nel momento in cui dà visibilità alle trame, pur nella finzione cinematografica, mitiga tutto questo, negandone al tempo stesso la validità. Finanche la ‘diversità’ di uno dei componenti il gruppo è comunque falsamente accettata, e scoprirla, anche se casualmente, spaventa enormemente, è vissuta come adulterio, tradimento dell’amicizia, volgare impedimento d’una possibile continuità futura.

Quale altra definizione attribuire a tutto ciò che non sia attaccamento al perbenismo, al conformismo, al convenzionalismo? Non so voi, io la identifico in ‘ipocrisia ’, ancor più in ‘pregiudizio’, altrimenti cos’altro? Quale altra definizione risulta più consona della discriminazione, dell’intolleranza? Il passo per arrivare all’apartheid, al razzismo è davvero breve. Tutto ciò non è più tollerabile, non sulla bocca di chi, in quanto cittadini di questo XXl secolo, crede di aver raggiunto un alto grado di civiltà. Ma il biasimo non affranca quanto avallano i presenti alla ‘cena’ amicale in cui si dibattono i protagonisti, Eva (Kasia Smutniak), Rocco (Marco Giallini), Carlotta (Anna Foglietta), Lele (Valerio Mastandrea), Cosimo (Edoardo Leo), Bianca (Alba Rohrwacher), Peppe (Giuseppe Battiston); tutti credibilissimi nelle loro diversificate ‘finzioni’. Bensì crea una disparità di intenti ben congeniati a cui tutti sono chiamati a rispondere in prima persona. È qui che il ‘gioco’ iniziale dello scambio della ‘verità’ (quella vera), esplode dai telefonini e investe tutti e tutti sono investiti dal dramma che loro stessi hanno creato, con la paura di essere letti per quello che sono.

Un gioco al massacro dunque, in cui l’ultima parola è lasciata a colui che si diversifica dal gruppo; quel Peppe (Giuseppe Battiston) che, con una frase a dir poco lapidaria, risponde alla richiesta di presentare al gruppo il suo compagno Lucio, li affossa tutti nella loro stessa merda: “..devo difendere la sua integrità, la sua dignità di essere diverso da tutti voi!”.

Il film se vogliamo presenta questo risvolto psicologico certamente in modo più leggero di come l’ho reso, e tuttavia già a metà film non si ride più perché nel frattempo i protagonisti hanno preso coscienza di sé, ognuno diversamente dall’altro, riflettendo su ciò che erano con se stessi e l’uno nei confronti degli altri. È così che la ‘cena’ (come l’ultima cena evangelica), e il film di Genovese lo ripete, termina allo stesso modo in cui pur non essendo nessuno colpevole, ognuno è più colpevole dell’altro, perché ognuno è responsabile del comportamento degli altri. Il gioco scenico è fra quelli più sfruttati nella storia della letteratura da Pirandello in poi, così come molti sono i film cui il soggetto cinematografico di Genovese in qualche modo si rifà. Tornando indietro con la memoria l’elenco potrebbe non finire mai: da “Metti una sera a cena” di G. Patroni Griffi (1969), ad “Amici Miei” di M. Monicelli (1975); da “La terrazza” di E. Scola (1980) a “Compagni di Scuola” (1988) di Carlo Verdone; fino all’esilarante quanto logorante “La cena dei cretini” di F. Veber (1998), ognuno dei quali fornisce un tassello importante e aggiornato allo studio (si fa per dire) su chi veramente siamo, sulla società che viviamo.

Assolutamente da non perdere.

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