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La persecuzione in guanti bianchi

Argomento: Religione

Articolo di Matteo Matzuzzi 

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Pubblicato il 04/04/2016 11:36:04

 

"La persecuzione religiosa nel mondo è prima di tutto una persecuzione contro i cristiani",

scriveva lo scorso dicembre il vaticanista americano John Allen, enumerando l’ormai infinita teoria di nuovi martirii che da un capo all’altro del mondo scandiscono e segnano il tempo corrente. Una persecuzione praticata con tutte le armi che l’ingegno umano ha potuto affinare, dalla più sottile e ammantata dall’ipocrita alone legale a quella rozza e impietosa del fanatismo religioso. Basta aprire un atlante per rendersene conto. Osservare una cartina qualunque per trovare un luogo in cui la croce è disprezzata o – nella migliore delle ipotesi – tollerata. Non c’entra solo il jihadismo califfale che stringe come un giogo diabolico il vicino oriente, distruggendo ogni traccia di cristianesimo in quelle terre, arrivando persino a prendere a martellate le tombe, insulto ultimo al morto che non può difendersi. Non v’è solo lo scempio delle antiche chiese dove si pregava in aramaico, con gli altari addobbati da nere bandiere islamiste e amboni scavati nella pietra grezza fatti a pezzi per il gusto di dire al crociato superbo che quella non è più casa sua. Certo, la "n" di nazareno dipinta sulle case dei cristiani a Mosul ha contribuito molto a circoscrivere la persecuzione alla caccia avviata dal cosiddetto Stato islamico, e le immagini dell’esodo di intere comunità verso le tendopoli del Kurdistan iracheno non hanno fatto altro che acclarare tale desolante quadro. Eppure, questo è uno spaccato limitato. L’Africa, culla del nuovo cristianesimo, continente con vocazioni record e fedeli entusiasti, è al contempo l’arena dove più fedeli a Gesù vengono macellati da quelle che il Papa, nella preghiera finale dell’ultima Via Crucis al Colosseo, ha definito "spade barbariche". La Nigeria ne è l’emblema: "Più di cinquecento villaggi cristiani sono caduti in una notte", diceva il 2 marzo scorso Emmanuel Ogebe, avvocato per i diritti umani. Un rapporto recente del Gatestone Institute, think tank conservatore basato a New York che accoglie personalità del calibro di Alan Dershowitz, sottolineava che "quanto i cristiani stanno sperimentando in Nigeria è la fotografia dal vivo di ciò che milioni di cristiani e altri non musulmani hanno sperimentato fin dal settimo secolo, da quando cioè l’islam migrò entro i loro confini: violenza, persecuzione, schiavitù, distruzione di chiese". Riassunto che dà credito e sostegno a quel filone di pensiero robusto – ma assai poco politicamente corretto – che vede nella stessa essenza della religione islamica, incapace di riformarsi, la causa della tempesta che sconvolge il mondo di oggi. "L’Amministrazione Obama rifiuta di associare Boko Haram – un’organizzazione che si definisce in termini puramente islamici – con l’islam, così come rifiuta di associare l’Isis all’islam", osservava ancora il Gatestone Institute.

"In ogni caso", aggiungeva il dossier, "l’Amministrazione sceglie un’altra strada, insistendo che il jihad è un prodotto dell’iniquità, della povertà e della mancanza di possibilità lavorative. Non dice mai che è il prodotto dell’insegnamento islamico". Opportunità politica, si dirà. Un necessario equilibrismo che consente di tenere le porte aperte quasi con chiunque, evitando di gonfiare petto e muscoli, annullando ogni più o meno forte manifestazione d’orgoglio, ricacciando nell’oblio teorie sulla democrazia da esportare e favole sulla città splendente in cima alla collina di reaganiana memoria. Eppure, il memoriale delle vittime parla chiaro, senza attendere le acrobazie della diplomazia benpensante: Boko Haram ha mietuto più vittime dello Stato islamico. In quindici anni, fin da quando cioè nel nord della Nigeria si iniziò a guardare con interesse alla possibilità di fondare la società interamente sulla Sharia, sono stati uccisi tra i novemila e gli undicimilacinquecento cristiani, "e la stima è al ribasso", si premette. Basta un kamikaze imbottito di tritolo da mandare a farsi saltare in aria in mezzo a un mercato, magari una bambina convinta con chissà quale stratagemma. Niente di mediaticamente orripilante, comunque: all’attentatore suicida il telespettatore occidentale si è abituato, ora anche tante serie tv trasmesse on demand hanno fatto del kamikaze il parvenu d’obbligo. In Nigeria non si ammazzano i cristiani bruciandoli vivi in scatole di ferro; non li si maciulla investendoli con un carrarmato così da mettere subito su YouTube il video al fine di terrorizzare il globo e adescare adepti da mandare al massacro. La Nigeria è quasi come il Pakistan, dove da sette anni una madre di famiglia accusata di blasfemia attende di essere impiccata. Le folle becere alternano invocazioni al Dio misericordioso e al severo giudice secolare affinché si appenda al più presto a una gru Asia Bibi, rea d’essere cristiana in un paese che i cristiani li tratta come neanche gli ottomani facevano con le loro minoranze due, tre, quattro secoli fa. I talebani hanno subito rivendicato la strage di Lahore, in un parco giochi affollato di famiglie che festeggiavano la Pasqua. L’obiettivo erano i cristiani, recita il comunicato del boia. Ma allo statistico cui prude chiamare le cose con il loro nome poco importa: già da un paio di giorni fa sapere al mondo che, in base al dna, i pezzi di carne recuperati tra le giostre sono forse ricoperti di sangue più musulmano che cristiano. Come se questo dovesse in qualche modo acquietare le coscienze e ridimensionare la vicenda. Nella realtà pazzotica contemporanea succede che siano i musulmani, quelli illuminati, a dire la verità, e cioè che l’islamismo – ossia l’islam politico, che alimenta wahabismo e salafismo – è il male assoluto, un cancro che mina sì la convivenza intramusulmana, ma che è una bomba a orologeria messa nel ventre sempre più molle dell’occidente.

Ma la persecuzione non può essere ridotta banalmente a una guerra santa tra cristianesimo e islam. In India a dar la caccia al cristiano è il fondamentalismo indù, in Cina e Corea del nord sono le politiche dello stato. Perfino nell’America latina da cui proviene il Pontefice regnante i governi non è che siano in piena sintonia con la visione cristiana delle cose. Ed è questo il problema, il moloc invisibile che rende ancora più grave la questione. Perché la persecuzione più infida e di maggior successo è quella in guanti bianchi, perpetrata con i sottili strumenti del presunto Stato di diritto, codici e cavilli, tribunali e direttive. "Ci si accorge che non ci sono solo le guerre di religione ma anche la guerra alla religione, e in particolare alla religione cattolica", ha scritto nell’Introduzione al libro "Le nuove guerre di religione" (Cantagalli) il vescovo di Trieste e presidente dell’Osservatorio internazionale cardinale Van Thuân sulla dottrina sociale della chiesa, Giampaolo Crepaldi. "Non si tratta di una guerra dichiarata, convenzionale, con uso di armi e strategie militari. E’ possibile chiamarla guerra solo in senso traslato. E’ un conflitto, una lotta tramite leggi, politiche, interventi degli organismi internazionali, licenziamenti, intimidazioni, l’uso dei media, la destinazione di ingenti risorse alla propaganda contro la religione cattolica e i suoi presupposti". Una guerra combattuta in occidente, che ineluttabilmente si lega al ribollire terrorista che ne minaccia valori (a patto di comprendere quale sia oggi il sostrato valoriale dell’Europa), princìpi e confini. Un occidente che, diceva ancora Crepaldi, "è troppo preoccupato di recidere i propri legami con la religione proclamando l’indifferenza alle religioni, indebolendosi e rendendosi non più capace di difendere nel mondo nemmeno il diritto alla libertà di religione, che in un certo senso è una sua invenzione". Quell’occidente che "non dice una parola verso le persecuzioni dei cristiani" e che non ha "trovato finora la spinta morale per intervenire a proteggere le popolazioni vittime dei califfati o dei regimi dispotici a fondamento religioso".

L’occidente che per decenni ha appoggiato, esaltato e finanziato moderne satrapie ovunque nel mondo, salvo poi indignarsi per qualche ora dinanzi alla repressione di manifestazioni di piazza, addobando i profili personali di Facebook con pietosi simboli colorati e lacci neri a testimoniare una più o meno consapevole vicinanza al caos. E’ l’occidente che poi s’arrovella per mesi sulla scelta di riconoscere che tra la Siria e l’Iraq è in atto un genocidio contro i cristiani, con gli Stati Uniti che attendono l’ultimo giorno disponibile fissato dal calendario per dire che sì, le circostanze ci sono tutte per parlare di genocidio. Il cardinale Angelo Scola, scriveva qualche giorno fa sul Corriere della Sera che la dichiarazione del Segretario di stato americano, John Kerry, che ha ammesso l’esistenza di una persecuzione genocida nel vicino oriente, "adempie già una funzione essenziale, la memoria ‘senza la quale – ha ricordato Papa Francesco parlando alla nazione armena – il male tiene ancora aperta la ferita’". Citava, l’arcivescovo di Milano, "quella nuda lista di 1.131 cristiani iracheni uccisi dal 2003 al 9 giugno 2014 (cioè prima della conquista di Mosul da parte dell’Isis)", la rappresentazione più veritiera del fatto che "gli attentati e le violenze che sconvolgono oggi alcune metropoli europee sono l’appendice di quell’amaro pane quotidiano di cui intere popolazioni, dall’Iraq alla Siria, dall’Afghanistan alla Somalia, per non parlare della Nigeria, si nutrono ormai da anni. Prenderne coscienza – aggiungeva Scola – produce un moto di compassione che non sostituisce ma allarga la riflessione sulla sicurezza". Tuttavia, chiosava il cardinale ambrosiano, "memoria e compassione non sono sufficienti a cancellare il male". Che si tratti di mattanza armata o di persecuzione sub lege, la guerra al cristianesimo mira a sradicarlo ovunque esso abbia dato frutti. L’Europa pacificata del Terzo millennio, che s’è dotata di istituzioni comuni, inno, bandiera blu con le stelle gialle, tenta così di compiere il sogno rimasto utopia dei rivoluzionari giacobini, che fecero della cattedrale di Notre-Dame un deposito per armi, granaglie e cavalli; un luogo dove dall’altare si declamavano odi alla dea ragione, prima che al filosofo Henri de Saint-Simon venisse in mente il proposito (poi scongiurato) di comprarsi l’edificio per raderlo al suolo. Secondo il Pew Forum, il maggior istituto del pianeta per gli studi sulla demografia, tra il 2006 e il 2010 i cristiani sono stati a vario titolo discriminati, "de jure o de facto", in 139 paesi. Cioè nei tre quarti degli stati presenti sulla faccia della terra. Il Gordon-Conwell Theological Seminary, in Massachusetts, ha stimato che ogni anno (nell’ultima decade) sono stati assassinati più o meno centomila cristiani in quella che è stata definita "martirio". Undici morti per la propria fedeltà a Cristo ogni ora, sette giorni su sette, sottolineava Allen. Nulla di inedito, scriveva già tempo fa ne "La storia perduta del cristianesimo" (edito in Italia da Emi, 2016) lo storico americano Philip Jenkins: "Le religioni muoiono. Nel corso della storia, alcune religioni svaniscono del tutto, altre si riducono da grandi religioni mondiali a una manciata di seguaci". Gli esempi non mancano: "Il manicheismo, una religione che un tempo attirava adepti dalla Francia alla Cina, non esiste più in alcuna forma organizzata o funzionale; né esistono più le fedi che, mezzo millenio fa, dominavano il Messico e l’America centrale". E anche il cristianesimo non è sfuggito a tale destino: "In diverse occasioni è stato distrutto in regioni dove un tempo aveva prosperato" e "nella maggior parte dei casi, l’eliminazione è stata tanto meticolosa da cancellare ogni memoria dei cristiani sul territorio, al punto che oggi qualsiasi presenza cristiana da quelle parti è guardata come una sorta di specie invasiva arrivata dall’occidente".

 

(Il foglio, 2 e 3 aprile 2016)

 


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