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Conviene che è una strana faccenda
annaspare nel fango occhieggiando le stelle
ed è un'infamia che un dio abbia inventato
il fango in cui tutti annaspiamo.
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C'era una volta un giardino ai piedi di una collina,
dietro un muro di pietra. Una rete verde di ferro
lo circondava. Vi fiorivano d'estate dalie
gialle e cremisi. Ibiscus bianchi e azzurri,
un loto, un'acacia, un melo verde, un fico
spandevano sul terreno morbido la loro ombra leggera.
Il vento recava i rintocchi di campanili lontani,
abbaii, cinguettii come musiche accordate.
In quel giardino, d'estate, tornava un uomo
che da sempre, il suo sempre, cercava parole esatte
contro il rumore, e là s'illudeva di trovarle
e ne godeva come il dono inatteso di un paradiso.
Poi venivano i giorni delle piogge e delle parole vuote.
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Servono agli uomini le guerre.
Dopo ricostruiscono le città,
stipulano i nuovi accordi,
rinnovano abiti e arredi.
Prima hanno fortemente voluto
i nemici annientati
cancellate intere nazioni.
Prima ancora hanno rinviato le ansie
che li stritolavano come i serpenti a Laocoonte.
In un sacrario sul Garda
vi sono i morti tornati da Rodi e da Bengasi,
da Zagabria e dalla Varesina:
il loro eroismo consiste
nel non trovare risposta.
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Le piazze sono strapiene di uomini, donne, ragazzi;
avanzano dietro striscioni, chiedono un altro presente.
E vanno intonando canzoni di facili rime
che salgono fino ai terrazzi e l'aria s'imbeve.
In così tanto fervore perdura la pena
− ognuno intende quanto sia ardua l'impresa −
pure ciascuno sa: in molti paesi lontani
sono strapiene le piazze di uomini, donne, ragazzi
che, in lingue diverse, chiedono un altro presente.
Il coro immenso si spande nel rosso tramonto
come una sola nuova onesta preghiera.
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La città che imprigiona ha molte porte
e ciascuna conduce a diversi ritorni.
[ da Rifrazioni, Elio Pecora, Mondadori - Lo Specchio ]