Pubblicato il 22/12/2020 12:26:07
Zoroastro (Deserto del Dasht-e-Kavir)
Il capo dei guardiani notturni propose un accordo soddisfacente per tutti. Per noi e per loro. Noi per andare avanti con le costruzioni; loro per sopravvivere e guardare della vita non solo l’argilla, le pecore e gli sterpi del deserto. “Ruberemo solo tre bombole di ossigeno per notte e due matasse di cavo di rame” comunicò. “Conviene” pensai, infatti ogni giorno il consumo era pari a trenta bombole e tre su dieci rappresentavano un’accettabile proposta. Alternativa: i guardiani avrebbero chiuso tutti gli occhi e le bombole involate sarebbero state trenta per notte. Postilla all’accordo: avremmo riacquistato le nostre bombole direttamente presso la tenda dei guardiani, a tre chilometri dal cantiere, pagandole con lo sconto del dieci per cento rispetto al mercato, per congruenza con le quantità rubate. Seguì stretta di mano, io per la Società, il capo dei guardiani per la tribù. Nuova amicalità mi permise di sapere che erano di fede Zoroastra e che presto avrebbero ripreso il girovagare dei nomadi: percorrendo le piste, battezzando le grandi caldaie di rame, vendendole in mercati e Bazàr. “Festeggeremo - mi disse – la festa del fuoco stasera, nella nostra tenda alla fine della pista numero cinque, conosci la strada, ti aspettiamo.” “Verrò,” comunicai. “Ti prego,” aggiunse “porta qualche cassa di bottiglie di vodka. Khoda Hafiz, aghà(1)” sorridendo. “Khoda Hafiz,” a mia volta.
La pista cinque va a sud senza curve, senza limite evidente tra l’asfalto e il deserto, verso Khorramshar e il golfo. La strada costeggia grandi tubi d’acciaio, verticali sul terreno argilloso e sulla cui sommità, da trent’anni, brucia il metano che fuoriesce dai pozzi di petrolio e non viene utilizzato. La violenza della fiamma fa tremare il terreno d’intorno per un raggio di centinaia di metri. e la luce è così forte che le auto e i grandi truck, di notte, non accendono i fari, ma solo piccole luci appese in alto, sopra il parabrezza.
Arrivo e parcheggio la mia Land al limite del campo. Il guardiano Baràd mi accoglie con un abbraccio: scaricherà lui le cassette. Entro chinandomi e scostando la leggera pezza di stoffa che funge da porta del grande tendone. Lunghissimo il Kilìm steso per terra, tanti sono seduti su cuscini e sembrano in attesa, un solo posto è libero a un’estremità del tappeto. Mi siedo, dopo il saluto – Salam - con la mano dal cuore alle labbra. Ragazza vestita di brillanti colori, nera di capelli, dita lunghissime, mi porge il piatto di coccio; al centro, circondato di riso, melanzane e foglie di vite arrotolate, mi guarda immobile l’occhio d’agnello in arrosto. Tutti hanno un identico piatto e guardano me: mangeranno dopo che avrò iniziato per primo, prendo l’occhio tra le dita e, lentamente, lo porto alla bocca, mangio e subito tutti mi seguono. Infine, il resto dell’agnello. Poi dolci di glassa dolcissima, addobbata di zuccherini colorati. Fuori, rumori di pecore e dromedari assonnati. La notte è calda e di vento sabbioso. Le bottiglie di vodka vuote sono già tante, portano quelle delle mie casse. In tre suonano strumenti a corde, due per strumento. Musica ripetuta, ossessiva. Donne ballano la tradizione delle danze tramandate dalle antiche tribù. Bevono; io non bevo. La ragazza, ora danzatrice, dalle mani lunghe e dita affusolate, siede sulle mie gambe incrociate. Mi dice: cinque Rials per saluto con bacio, io sono Farnàs. Porgo i Rials, sorridendo del gioco. I tre sono ormai due a suonare, uno è già steso vinto dalla Vodka. Farnàs mi offre la fronte per il bacio e mi sfiora le guance con un dito. C’è un fuoco che brucia più in là. Uomini ridono, scherzano, bevono; ragazze danzano in movenze di rituale lentezza: illusione ad occhi che non sanno vedere, ad orecchie che non sanno ascoltare. Farnàs sorride, si avvicina, mi guarda, dieci Rials stavolta. Giri di vesti, colori di erbe, di rosso e viola. Il fuoco di altalenante bagliore palesa a me Zoroastro come intermittente e trasparente fantasma, complice l’ossessivo trascorrere di nenia e di effluvi d’odori speziati. Un solo strumento, di unico budello sonante, accompagna il ritmo di musica codificata non scritta, sconosciuta al pentagramma. C’è chi russa disteso su tappeti in disordine sparso. Ora il budello suona da solo, chi lo sfiora ha occhi lucidi ed ebbri, incerte le dita. Guardo la tenda, grande come da circo, la vedo ormai vuota, resiste liuto monocorda. Farnàs si accosta, accenno ad estrarre i Rials, mi ferma la mano, si compiace di sguardo tagliente. Si siede e mi offre una vodka in grande bicchiere. Bevo, affinchè le parole non debbano chiedere. È il suo corpo adesso che suona, la musica può solo inseguire, succube alla danza, mentre il tempo resta sospeso; la corda è spezzata e ormai vibra soltanto. In estasi assonante, la notte sembra rinunciare alla ricerca dell’alba. Infine, silenziosa scompare. Interrogante inquietudine segna il mio sguardo, il violista è sparito, il fuoco è agli ultimi lampi. Sollevo il mio corpo indeciso, mi avvio, in alcolico barcollio. Riuscirò a trovare l’uscita?
Tornai dopo due giorni: trovai solo la baracca dei guardiani e ricomprai le mie bombole, chiesi della tribù. Mi disse Baràd: partiti, con gesto della mano verso l’orizzonte: Esfahan, Shiraz, i villaggi del Dasht-e-kavìr, accenno impreciso, vaga indicazione. In un sacchetto plastificato mi porse altri occhi d'agnello da cucinare in cantiere. Mi avviai verso la Land Rover passo corto priva di tetto e con parabrezza abbassato. Presi la pista del nord. Il vento sollevava la polvere fine d’argilla seccata dal sole. (1)Khoda Hafiz, aghà = Arrivederci, signore.
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