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Terracarne

Narrativa

Franco Arminio
Mondadori


Recensione proposta da LaRecherche.it

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Pubblicato il 09/12/2011 12:00:00

[ Recensione di Enzo Rega ]

Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia

   Da tempo Franco Arminio ha cominciato il suo viaggio nei paesi che stanno scomparendo, per coglierli e eternarli in una sorta di fermo-immagine che li riprende nel momento del trapasso. Questa è diventata una sorta di disciplina, la paesologia, che non ha e non vuole avere carattere scientifico, l’autore stesso infatti afferma che essa si trova tra la poesia e l’etnologia. Non si tratta nemmeno di rimpianto puro e semplice per un mondo che non c’è: infatti non ha nulla a che vedere con quella che in queste pagine viene chiamata invece “paesanologia”. Una disciplina, la paesologia, che forse è arrivata al suo traguardo dopo una serie di volumi, a partire da quel Viaggio nel cratere (Sironi, 2003) con il quale Arminio circoscriveva il suo raggio d’azione (e d’osservazione) ai paesi colpiti dal terremoto del 1980, con una particolare attenzione a quell’Irpinia d’Oriente, incuneata tra Puglia e Basilicata, della quale fa parte Bisaccia, il paese natio dell’autore che ha coniato anche il toponimo per una terra che, sull’altro versante appenninico, risente addirittura d’umori balcanici e che sembra più parte dell’oriente che del mondo occidentale. “Ci sono i paesi, ma ci sono pochi libri che li descrivono”, questo l’incipit del primo libro e il motore primo della Wanderung, di un vagabondaggio tra paesi in un territorio che concentricamente s’allargava sempre più a partire dall’epicentro iniziale, fino a toccare pure qualche località del Nord Italia. Queste le tappe del viaggio, e del suo racconto, che trova summa e compimento nel recente volume mondadoriano: Circo dell’ipocondria (Le Lettere, 2006), Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia (Laterza, 2008), Nevica e ho le prove. Cronache dal paese della cicuta (Laterza, 2009), Oratorio bizantino (Ediesse, 2011). Nel percorso cambia talvolta la focalizzazione (i personaggi più che i luoghi, o certe modalità della scrittura: come nel libro de Le Lettere o nel secondo di Laterza), ma resta questa ostinazione e vocazione che spinge l’autore, onnivoramente, oltre che verso terre contigue, speculari, come la Lucania e la Puglia, dove ritrova l’essenza stessa, ancora più all’osso, dei propri paesaggi, anche verso l’altra Campania, quella dei “paesi giganti” del napoletano.

   Certo, i primi sono più connaturati alla scrittura di Arminio, ne sono in fondo il respiro stesso. Fondamentale, in questo caso, la lettera che Arminio si fa scrivere dal proprio paese, Bisaccia:

 

    “Io sono il tuo paese, sono la somma delle case, sono ogni tegola, ogni scalino, sono ogni gatto, ogni luce sul comodino, sono i vecchi delle vie fredde e cupe, i giovani delle ville sperdute, sono il grano che comincia a crescere, sono la pala eolica, la quaglia, la rondine quando arriva. Sono il freddo che conosci bene e che prima ti piaceva tanto e ora ti fa paura. Ti vedo uscire incappucciato, non entri mai in un bar, non giochi a carte. Hai paura di sederti, senti che quella è una trappola, ma ti sbagli, e sbagli a stare in casa a farti una tisana, a fare colazione con biscotti e camomilla. Vai al bar, beviti un caffè senza paura, passeggia con chi capita, spreca il tuo tempo, fattelo rubare, non averne alcuna cura. Lo so che sei sempre in ansia, lo so che hai paura di morire. So che scrivi ogni giorno e che adesso non hai problemi a vedere stampati i tuoi libri. Potrei citarti ognuna delle tue poesie. Quando parli di me sembri più ispirato. Quando scrivi dei paesi le tue parole hanno leggerezza e peso. Quando parli d’altro sembra che giri a vuoto. La verità è che io sono tuo fratello, tua sposa, il tuo incubo e la tua speranza. Lo sai, c’è un piacere o un dispiacere dell’abitante verso il suo paese, ma c’è anche un piacere o un dispiacere del paese verso il suo abitante”.

(p. 288)

 

   La forza dell’ispirazione che si sprigiona parlando di ciò che più lo riguarda, non viene certo meno quando si approda in quella Lucania, dove gli spazi si fanno ancora più vuoti e i silenzi più fondi, e il paesaggio più puro. Ma anche qui natura e cultura vanno insieme, se poi la visita dei paesi è anche un pellegrinaggio alla ricerca delle voci che li hanno cantati. Così, alcune delle pagine più belle riguardano, in Lucania, l’Aliano di Carlo Levi, un paese che resiste nonostante proprio le parole dello scrittore torinese in Cristo si è fermato a Eboli abbiano attirato lì tanti curiosi:

 

   “Ad Aliano sono arrivati in tanti attraverso le pagine del libro di Carlo Levi. Il paese è ancora lì, con tutti i segni che hanno i paesi adesso. Però qualcosa resiste, a cominciare dal paesaggio circostante. I calanchi sono quelli, non è possibile alcuna lavorazione agricola. E neppure si sono avviate pericolose operazioni di sfruttamento turistico. Bisogna contemplarli da lontano, un mare di pieghe grigie, come un cervello spalmato per terra. E poi se ci entri dentro, senti le voci di questa terra. Ti devi inginocchiare, devi essere una formica, un ciuffo d’erba”.

(p. 50)

 

   Con Tricarico si apre proprio la sezione lucana:

 

   “Finalmente sono arrivato a Tricarico, il paese di Scotellaro. In cielo c’è un falco, gli alberi sono tranquilli e lontani. Il mezzogiorno di novembre ha il buio che sale già sui fianchi. La luce che resta è bevuta dalle vacche nei campi, dall’argilla dei calanchi. […] Questa regione vive più nella testa di chi se n’è andato che in quella di chi è rimasto. E perfino arrivandoci dalla desolata Irpinia d’Oriente si sente un ulteriore e per me riposante senso di vuoto, un vuoto che ti fa rivedere la terra, come se negli altri giorni vedessimo solo quello che c’è sopra”.

(p. 19)

 

   Se questi paesi invisibili permettono di cogliere istantanee nelle quali tutto appare quasi immobile, è il confronto con i paesi giganti che permette invece di svelare appieno il tarlo che corrode pure i primi. Ecco allora il quadro apocalittico:

 

   La Napoli-Pompei-Salerno assomiglia a una pista di macchinine da corsa. Arrivando a Torre del Greco mi chiedo come facciano quelli che abitano qui a non impazzire percorrendo questa strada. Di certo questo posto doveva essere assai diverso quando ospitò Leopardi (che qui scrisse La ginestra e Il tramonto della luna).

   È l’ora di punta, l’uscita dalle scuole, la frenesia collettiva delle madri. Ci sono centinaia di ragazzini in giro e altrettanti motorini. Continuo a chiedere indicazioni, dico: “Scusi, per il mare?, mi fanno cenni diversi, mi guardano come se stessi chiedendo della piramide di Cheope. Eppure Torre è un paese di mare, almeno lo era. Sono in macchina da diverso tempo, non vedo altro che strade in discesa e palazzi altissimi, la luce non buca gli spazi, perché spazi vuoti non ce ne sono. Qui è tutto un tessuto unico, una trama fitta di mattonelle, finestre, basolati e cancelli. Vicoli che incrociano altri vicoli e un affannoso e distratto brulichio umano. Tutti serrati, tutti insieme in questa prigione collettiva e autocostruita, tutti a correre da qualche parte per incontrarsi nel punto di partenza”.

(p. 199)

 

   Come in testo a fronte, e al di là degli stereotipi esistenti, leggiamo dei diversi possibili Sud. E se abbiamo tolto ampi stralci dal libro è per rendere conto anche della grana della voce perché Arminio, come dicevamo, non è un sociologo, ma uno scrittore che declina, nel senso di disfacimento dei paesi che attraversa, il sentimento della propria altrettanto inevitabile morte. Questo è anche e forse soprattutto un libro sulla morte che, occasionalmente ma non per questo meno significativamente, s’incontra con la morte del mondo che l’uomo, nella presunzione pure di superare i suoi limiti, ha costruito. E Arminio crede e non crede nel potere della parola. Se da qualche parte scrive di volere, con le sue parole, prendere un paese e porlo in salvo (p. 231), dall’altro confessa pure l’impotenza: “Faccio parole con la carne e con la terra. Con le parole faccio carne e terra e niente” (p. 145). C’è un’esattezza spaventosa in queste parole, continuazione stenografica dell’osservazione che avvicina la tensione della scrittura di Arminio, e la sua interna esigenza, a quella dell’ecole du regard di un Peter Handke, che scrive: “Quel che ho sempre pensato fra me non è niente: io sono soltanto quel che m’è riuscito di dirvi”. D’altro canto, ci viene un altro paragone lontano territorialmente da quel Sud nel quale Arminio si muove (ma Arminio non è scrittore territoriale, localistico), quello con il paesologo Walter Benjamin (quello che ha parlato della natia Berlino e di Mosca, e di Berlino attraverso Mosca: come Arminio attraverso il suo vagabondaggio torna in fondo sempre all’odiata/amata Bisaccia). In Benjamin l’altissima tensione della scrittura investe ogni frase, tanto da togliere il respiro. Anche Arminio, flaubertianamente, costruisce le sue frasi come se ciascuna fosse l’ultima, anzi l’unica. Ma, nello stesso tempo, ci fa il dono di una leggibilità assoluta.



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