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Jacob Rohault I giorni di venezia

di paolo massimo rossi
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Pubblicato il 06/12/2020 11:35:34

Jacob Rohault, scienziato e filosofo Cartesiano, nell'anno 1658 si trasferisce da Parigi a Venezia per seguire, presso l’antica tipografia Eredi Hieronymus, la stampa dell'edizione italiana del suo Tractatus Physicus. Il protagonista della storia è uno scienziato cartesiano protagonista della rivoluzione filosofica seicentesca, tesa al sovvertimento di un passato dogmaticamente cristallizzato. E non è un caso che per alcuni giorni lascia Venezia per recarsi a Bologna, dove, nella Biblioteca dell’Archiginnasio cercherà altri testi dell’epoca per sostenere e avvalorare le sue ipotesi.
Nei mesi del soggiorno veneziano, quasi involontariamente si ritrova a frequentare la società patrizia; accetta l’incarico di precettore di Fulvia, una fanciulla di nobile casato passionale e ambigua dalla quale, suo malgrado, viene coinvolto in tipici intrighi della città lagunare. Fulvia gioca coi sentimenti che Jacob comincia a provare per lei, alternando momenti di aggressività sensuale (“La donna che state ignorando, di notte si rigira nel letto che lei avrebbe voluto accogliente per voi e per le attenzioni che desiderava rivolgeste al suo cuore e anche ai suoi fianchi e al suo seno.”) ad altri di malinconia (“Mi sembra di non aver portato a termine cose che avrei dovuto fare; ma è un elenco inutile. E poi … la lentezza di questa neve che cade a riempire ogni vuoto. Vorrei vederla come qualcosa di salvifico, neve caduta per sopire le lacerazioni dell’anima, metafora di un tempo sospeso, in attesa che io possa tornare a parlare impudicamente. Chissà, forse in altro luogo, diverso da Venezia.”)
Dunque, i giorni di Jacob si dipanano tra considerazioni filosofiche: (“Io credo che per spiegare e conoscere il mondo, ci siano tanti modi che la mente può scegliere. E tra essi, oltre Dio, ce ne sono altri, come il caso, la ragione, la fantasia o i sogni,” dice a Fulvia in un momento di dubbio speculativo,) suadenze erotico/sentimentali, il piacere di nuove amicizie e, inevitabilmente, il fastidio di inevitabili inimicizie.
Sino al giorno in cui, richiamato dal Re Sole, riparte per Parigi dove assumerà altri incarichi prestigiosi, lasciandosi alle spalle qualche rimpianto, commenti salaci, accuse di eresia, gratificazioni, delusioni e forse dei cuori spezzati.

Stralcio
“Vi aspettavo, monsieur. Ho la presunzione di credere che sarò l’unico a cui rivolgerete un saluto di arrivederci o d’addio.”
“Né l’uno né l’altro. Il mio è il tentativo di seguire un filo di pensieri di cui voi siete il tessitore, in certe occasioni occulto, in altre straordinariamente visibile.”
“Mi fate passare per qualcuno in cui non mi riconosco. Semplicemente, ho usato le mie capacità per raccontare come, in questa città, il falso può appropriarsi ineffabilmente del vero, anche dopo che questo sia estinto.”
“Probabilmente cercate non tanto la verità oggettiva delle cose, quanto piuttosto la prova che siete capace di considerare voi stesso come maître à penser in Venezia.”
“E credete che io sia riuscito in questo scopo?”
“Non è nelle mie possibilità giudicare, posso semplicemente ringraziarvi per avermi accolto nel mondo dei vostri pensieri.”
“E se smettessimo i reciproci encomi che, a lungo andare, finirebbero per farci perdere il senso del pudore?”
“Non posso che convenire con voi!”
“Quando partirete?”
“Non appena il mio fedele Camillo avrà approntato bagagli e vettura, cioè entro tre giorni, al massimo.”
“Naturalmente sarò lieto di avere in dono una copia del Tractatus.”
“La riceverete direttamente da Hieronymus.”
“Vi auguro un buon viaggio e un felice ritorno nella città che, io so bene, più di ogni altra avete nel cuore. Da parte mia, resterò in questa, per la quale, pur volendo, non riesco a provare un sentimento d’amore. Coltivando in me vanità e presunzione, l’osserverò dal tavolo al Caffè degli specchi, nei ricevimenti della nobildonna Stellarìn o in altri palazzi. Là dove continuerò a interrogarmi su quelle parole, Mane, Thekel, Phares, che si sospetta sempre annuncino la caduta di ogni luogo d’illusione. Voi, mio eccellente amico, siete un puro; mentre io amo l’impurità, la mescolanza e la contaminazione, tutte cose che, nel mio modo di vedere il mondo, sono fonte di vita, le sole che possono sottrarci al destino che quelle tre parole sembrano adombrare.”
Venne l’ora dei saluti. Jacob tornò a La Campana. Non conosceva il significato di quelle tre parole, ne avrebbe chiesto a Le Grand una volta giunto a Parigi. Supponeva avessero a che fare con le maledizioni divine, quelle che spesso accompagnarono i prodromi delle civiltà.
Uscire dalla solitudine: avvertì l’urgenza insensata di fare una visita a Eva. Una conseguenza del sogno notturno: essere casti o libertini dipende da troppi e diversi fattori. Aveva circoscritto il mondo allo studio della scienza e dei suoi risvolti filosofici: “Cercano di spiegare le ragioni e le cause di tutti gli effetti prodotti dalla Natura. ”Eppure, anche le pulsioni e i turbamenti del cuore sono effetti della natura. I giorni di Venezia gli avevano mostrato che era facile sottrarre i sentimenti ai principi della fisica per circoscriverli nell’estetica e nello spettacolo. Provò una sensazione d’inadeguatezza e spaesamento.
Il mare oltre la gran piazza sembrò diventare pozzanghera. L’allegoria prendeva la via del possibile tra illusione e imprevedibile sventatezza. Entrò nel Caffè degli specchi, attraversò il grande ambiente principale per accedere alla saletta del biliardo, prese una stecca dalla rastrelliera, poi sistemò bocce e birilli. Un colpo secco e la sfera bianca colpì la piccola rossa: filotto e buca precisa. Le traiettorie delle palle d’avorio si conformano a una modalità spiegabile coi principi di causa ed effetto.
L’aria della notte era calma e fresca, foriera di un clima adatto al viaggio. Fu preda di pensieri asciutti e veloci che non si soffermavano sul domani: il cigno illude, mentre si presenta come dispensatore di flessuosi piaceri. Fosse nero mostrerebbe evidenti indizi di peccato.
Erano due le ancelle di modi leziosi? Gli tolsero il mantello; si accomodò dimenticando ogni rigore del dubbio. La signora gli sedette accanto: lo aspettava come mai nessun altro. Si spensero le candele.
Guardando la notte dal balcone, intuì che non sarebbe caduta la volta del cielo sulla tarda estate martiniana: un’occasione che uomini da poco avrebbero abbellito con parole insignificanti, funzionali all’occasione. Un presepe meccanico avrebbe scandito l’ora fluida e cangiante.
Fare a meno dell’aria, nutrirsi di umori, cercare una glabra e umida seta mentre il mondo d’intorno si offuscava, vagando, come assenzio stordente, in arse e vaneggianti ebbrezze.
Tempora sic fugiunt pariter pariterque sequuntur et nova sunt semper(10).
Si concesse un’ora di passi nella Piazza S. Marco e nei vicoli adiacenti. Finivano i giorni di Venezia.
Sentì un desiderio improvviso di primavere ventose e di un colle alto su una città sotto distesa, là dove era stata fondata quell’Abbaye de Monmartre che la rabbia dei parigini aveva nominato, qualche anno era appena trascorso, magasin des putaines de l’armée. Eventuale ripiego, all’occasione – Jacob sorrise – un vino che avesse avuto la reputazione «de faire sauter comme une chèvre».
Il colore del cielo era quello tipico di novembre.
Sapeva che Madama Stellarìn non gli avrebbe inviato il giusto compenso, il saluto era stato privo di menzione. Fulvia non era comparsa, gli aveva fatto pervenire i saluti: «per sempre avrebbe conservato nel cuore il ricordo.» Non la ritenne propensa alla menzogna: generosità necessaria. Ma ricordò una delle tante affermazioni di Le Grand: l’Ordine domenicano considera maculata persino la madre di Gesù.
Avrebbe potuto subire un interrogatorio blindato da parte dei difensori della fede: il mistero della trinità, la predestinazione, se il caos abbia avuto un creatore ordinante da cui nacquero i mondi e i cieli. Era stato graziato, anche se il rischio non era ancora da considerarsi svanito. A sua consolazione, i roghi non erano più in voga. Lo fossero stati, una pira l’avrebbe accolto «en causa de la suprema religion» e lo scriba della Serenissima avrebbe annotato che «miserrima anima efflavit ad supplicia sempiterna».
Una gondola, simbolo di fortuna stavolta, li trasbordò sulla terraferma: Jacob, Camillo finalmente contento, e i bagagli.
“Hai programmato il percorso?” chiese Jacob.
“Certamente, signore. E per quanto il viaggio sarà più lungo, faremo la via che costeggia il mare, passando per Genova e, da quella parte, entreremo nella nostra Francia.”
I cavalli trottavano leggeri, l’orizzonte non si rinnovava sul mare della laguna.
Prima del solstizio sarebbe stato a Parigi.








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