Stolperstein, in tedesco, è la pietra smossa del selciato, quella in cui si può inciampare. A questa parola fa riferimento il titolo che Miriam Rebhun ha voluto dare al suo libro. Un racconto denso di memorie, alle quali si intreccia la cronaca di un percorso di vita, mutila fino a un certo punto, fino a quando, seguendo l’esile filo di Arianna della frammentaria documentazione in suo possesso, l’autrice ripercorre a ritroso le tappe di un’identità in parte smarrita, in parte volutamente rimossa. Miriam sa poco o nulla del ramo paterno della sua famiglia. Non ha mai conosciuto il padre, ucciso a Haifa nel 1948, mentre in autobus si recava al lavoro, da un cecchino. Si chiamava Heinz. Nato a Berlino nel 1918, col fratello gemello Kurt (Gughy) approda in Palestina nel 1936, per sfuggire alle leggi razziali. Posti al sicuro dalla persecuzione nazista, i gemelli Rebhun troveranno entrambi la morte lì, nella patria che i sopravvissuti alla Shoah stanno cercando di darsi, entrambi vittime della guerra che da oltre sessant’anni oppone Israeliani e Palestinesi. Giovanissimi ambedue, ciascuno con moglie e figli.
Nel 1943 Heinz è volontario della Brigata ebraica che risale la penisola italiana al seguito delle truppe anglo-americane. Di stanza a Napoli, presso la piccola comunità della città conosce Luciana Gallichi, una bella ragazza di antica famiglia sefardita. La sposa nel dopoguerra. Dal matrimonio nasce Miriam. La famigliola così composta si trasferisce a Haifa. Poi la tragedia che costringe Luciana e la sua bambina a far ritorno alla città d’origine. Qui la piccola cresce nel clima di serenità e speranza del secondo dopoguerra, protetta dall’amore di una madre che tenta di risparmiarle la pena che porta nel cuore. In parte vi riesce. Il racconto degli anni dell’adolescenza è dolce, ha toni lirici di inusitata grazia. Vi ritrovi la vitalità chiassosa di una Napoli ingenua dove giovani studenti di liceo si incontrano, discutono, ballano al ritmo yè-yè, vivono le loro prime storie d’amore, tenere storie di ragazzi che guardano speranzosi al futuro. Miriam incontra Marco, il fidanzato che sposerà assai presto e dal quale avrà due figlie. Poi la vita di una famiglia che, a motivo dei numerosi parenti in entrambi i rami, diventa una piccola comunità d’affetti, mista, secondo uno spontaneo sentimento assimilazionista che sembra negare nei fatti la discriminazione.
Negli anni della prima maturità Miriam, testimone di seconda generazione com’ella stessa afferma, sente il bisogno impellente di recuperare la parte mancante di sé, quella che affonda le radici nel ramo berlinese della famiglia e in una delle tante tessere del mosaico d’orrori che ha segnato la vicenda degli Ebrei prima, durante e dopo il Nazismo. I nonni paterni, Frida Josephy e Leopold Rebhun, sono il suo cruccio. Nel 1934 hanno messo in salvo i loro unici due figli, non se stessi. Loro sono rimasti lì, a Berlino, a subire l’oltraggio di un regime che, nel puntare l’indice sugli Ebrei, mostrò di avere in odio l’umanità nella sua interezza, azzerò per qualche tempo la Civiltà, attinse alla furia caotica e selvaggia d’una natura preferina che nulla sa e nulla concede alla pietà.
Frida e Leopold non erano che dei nomi, privi di storia e identità, sconosciuti come la più parte delle vittime della mattanza nazista. Grazie alle amorose e puntigliose investigazioni di Miriam, oggi la loro vicenda è un po’ più nota e può ancora parlare ai nostri cuori di reduci dalla più feroce frattura della Storia.
Il libro di Miriam Rebhun non è solo atto di risarcimento e di giustizia postuma, ma anche lezione di umanità per quanti vi si avvicinano con l’animo di goderne la straordinaria forza di gusto e espressione. Da leggere, assolutamente da leggere, tutto d’un fiato. Sì, perché la prosa dell’autrice non transige: si insinua nella coscienza come una lama sottile e ne penetra i recessi. Ha la dolcezza di una carezza che avvolge e protegge, anche quando si fa sentenziosa, soprattutto quando, quasi con tecnica da romanzo poliziesco, coinvolge nell’intricata matassa che ha il suo bravo bandolo nella città di Napoli, infine cuore pulsante d’un’umanità che la cronaca sanguinaria degli anni recenti fa sembrare irrimediabilmente smarrita. La prosa della Rebhun sa farsi scarna e essenziale quando dice della solidarietà dei tanti che, col pudore dei “giusti”, hanno salvato gli Ebrei dalle grinfie delle leggi razziali e dall’orrore dei campi di sterminio.
Spesso mi sono chiesto, non senza sgomento: da che parte sarei stato se fossi nato quarant’anni prima. Ora lo so, dopo aver letto il libro di Miriam Rebhun lo so, senza remissione.