IV. Epilogo
Salii nella fortezza dello stabilimento per le scale di legno logore d’aria di mare. Una palafitta in cui stanno ristorante, bar, cucina e direzione. Dal soffitto di travi penzolano, appese a spaghi sfilacciati, modellini di navi, lische di pesce, reti e mandibole di pescicani e Ticchio, il principale, guardava ubriaco un incontro di boxe. Un suo nipotino gli s’accostò per giocare ma lui lo scacciò dicendo d’essere troppo preso dal match. Poi m’offrì del vino che rifiutai. “Che hai?” mi chiese vedendomi giù e tracannò un bicchierone di bianco. “Sono stanco Ticchio. Pagami e me vado.” Ma lui non m’ascoltava già più e gridava: “Vai col gancio p***o Dio!” Così mi sedetti al suo fianco e guardai l’incontro con lui. A fine match s’alzò in piedi e barcollante raggiunse la parete più vicina per non cadere, pareva aver preso più pugni dei pugili. Sospirò, rise e farfugliò al suo riflesso nel vetro d’un frigo: “Che birbante che sei!”
Si risedette su una sedia vicina, mi vide e mi disse: “Che ci fai tu qui? Ci sono le barche da tirare su. Non hai visto il mare come sale? Mi vuoi mandare in rovina?” Io guardai da un’altra parte e gli dissi: “Sono stanco, pagami e vado via”. Lui s’alzò e barcollò fino a me. Mi si mise in piedi davanti oscillando come un cipresso: “Che dici? Io come faccio senza bagnino? Mi devi un preavviso!” “Quanto ti devo?” “Almeno un paio di settimane!” Allora m’alzai dalla sedia su cui cadde subito Ticchio seduto e ansimante. Il cuore d’un vecchio alcolista e incallito fumatore non sopporta bene gli imprevisti. Camminai e m’affacciai dalla vetrata vista mare. Il mare stava salendo e le prue delle barche più in riva iniziavano a beccheggiare. Ticchio, seduto in modo osceno, col ventre gonfio scoperto, rantolava che lo volevo rovinare, che lui era stato sempre buono come un padre con me e che tutto questo non lo meritava. Il mare saliva. Ticchio diceva: “Ora come faccio con le barche?! Se se ne vanno in mare sono rovinato!” S’alzò e, rischiando di cadere, mi raggiunse. S’appoggiò alle mie spalle: “Guarda quelle barche! Come faccio a tirarle su da solo?! Non puoi mollarmi così!” Io lo fissai negli occhi storti dal vino e gli dissi: “Tu mi paghi e io ti alzo le barche, poi me ne vado e domattina non torno.” Lui alzò il braccio destro, chiuse il pugno e tentò invano di colpirmi in faccia. Mi mancò e, sbilanciato, perse anche l’appoggiò che aveva sull’altra mia spalla. Rischiò di cadere ma s’appoggiò alla vetrata sul mare. Lo vedevo sullo sfondo della tempesta, era come se stesse appoggiato al mare in furia, tutto di sbieco e sciatto come un barbone, un Poseidone ubriaco. Urlò: “Tu non puoi farmi questo p***o Cristo!” Annamaria, sua moglie, uscì dalla cucina preoccupata. “Questo bastardo si vuole licenziare! Ci vuole mandare in rovina!”
“Perché ti vuoi licenziare?” mi chiese Lei. “Perché sono stanco, non ne posso più.” Poi si rivolse al marito: “E che problema c’è? Perché urli così?” “Perché il balordo vuole andarsene senza preavviso, ora, su due piedi! Vuole lasciare quelle barche andarsene per mare!”
“Ma amore, lui non deve preavviso. Lavora al nero!” Ticchio si scollò dalla vetrata con un colpo di reni: “Allora io non gli devo un centesimo! Che sparisca p***a la Madonna!” e cadde a carponi, ansimò e gli colò dalla bocca un laccio di bava. Annamaria gli si avvicinò, gli pose le mani sulla schiena e lui vomitò un liquido giallastro in cui sguazzavano scaglie e spine di sarde. Annamaria gli sussurrò: “Amore, ma se va via chi alza le barche? La sua paga non vale la metà di tutte quelle barchette… paghiamolo e basta.” Lui, carponi, alzò lo sguardo su di me: “Vai ad alzare le barche allora! Poi i soldi.” “Prima i soldi.” Lui s’alzò furioso per venirmi addosso, ma al primo passo scivolò sul suo vomito e cadde all’indietro. Annamaria mi guardò come per chiedermi: “Ma che sta succedendo?” Sdraiato a terra, Ticchio lanciò uno sguardo fuori dalla finestra, vide che era troppo tardi e biascicò: “Questa è la fine”.
Il cielo è ormai nero e tanta la pioggia, il vento e le onde che non esiste più alcun orizzonte. Tra le creste bianche di schiuma fanno su è giù le travi delle barche distrutte. All’apice della tempesta, nell’occhio del ciclone, s’eleva ogni frammento di quello c’era e forse un giorno ricadrà, come fosse un detrito spaziale, sulle nostre teste. Ciò ch’era nostro non lo riconosceremo più e c’allevierà il pensiero d’uno spazio infinito, sconosciuto e inconoscibile, in cui il senso segreto delle nostre storie si nasconde così bene da sparire. Tutto ciò che ci spetta è alla fine dubbio e incertezza.
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