Pubblicato il 21/03/2008
Ci sono cose, sempre sotto il nostro sguardo, che diventano invisibili, scompaiono, non si vedono più, l’abitudine le eclissa, perdono di interesse, diventano scontate. Zucchi cerca di rompere questa maledizione, guarda le cose con occhi disposti a vedere. Esse stanno lì, aspettano, e “Tra le cose che aspettano” emerge qualcosa che può essere inscritto nel cerchio della poesia. Quello di Zucchi diventa allora uno sguardo che porta le cose ad una rinnovata esistenza, con i suoi versi squarcia l’indifferenza che le sovrasta e ne denuncia una sorta di abbandono: “Zanzare, fili d’erba, fiori, microbi, / fratelli – tutti – cui ho tolto tutto, / schiacciando strappando lavando / […] / vi ricordo e ringrazio / della vita che avete rivelato / […]”. Il poeta ha “il pensiero del mondo”, nel senso che considera il mondo, lo guarda e lo investe del suo coraggio analitico e descrittivo, quantitativo e qualitativo: “Un cartoccio di latte semivuoto, / e, sopra il tavolo, una gatta giovane / e curiosa. La radio accesa sfrigola; / nella padella tremano due uova: / così, dentro la testa, / il pensiero del mondo; / quello fuori dal guscio”. Nel suo procedere denuncia alcune parti del sistema sociale vigente: l’ipermercato, i “lobotomizzati digitali”, gli idrocarburi, le “orecchie paraboliche”, gli “occhi elettronici” lungo la via di casa, e tutta una serie di tendenze sociali che rendono l’uomo indifferente mentre le cose attendono la restituzione di una integrità tradita, del loro ruolo iniziale e sostanziale. In una seconda sezione della raccolta Zucchi parla di schiene nere, pugni neri, labbra africane, bambini di madri africane cariche di merci, tutti simboli di un rapporto con il mondo, con la natura, ormai corrotto dalla modernità. E’ una società che ruota fuori asse. Nell’ultima parte del libro, “Appennino”, si allontana dal mondo di questa stessa modernità sbilenca per proiettarsi nel mondo naturale della montagna, dove si trova una pace che scaturisce dal ruolo integro che ancora le cose possiedono pur nell’apparente terribile ciclo di vita e morte, di vittima e di carnefice: “Lo scheletro di pecora spolpato, / a ridosso del masso ricoperto / di ruvidi licheni, dentro l’alba / d’autunno fende gemiti / al vento. […]”. Ma è proprio nelle piccolezze, che alle volte ci sfuggono, disattenti come siamo, che si riflette l’immensità e la chiave della serenità: “[…] Un passero s’approssima per bere […] / in quella mite sete ora placata, / tutto l’immenso cielo”.
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