L’uomo Fisico
Il freddo ha placato ogni cosa,
ha lasciato i suoi cristalli di brina:
è come sedersi sul letto del fiume ghiacciato.
Il muro del buio traccia un confine,
da un argine che nulla diffonde nell’aria,
ma solo concentra il pensiero
in un cerchio più profondo.
Chinarsi, fermarsi
con gli occhi sulla coltre nevosa,
quando rumori più aspri si sono fermati:
forse al mondo non si ama che questo,
solo il sapore ferroso del bianco e del nero
di questa continua immagine,
nient’altro che un suono mortale
– tutto brucia il fuoco del gelo,
lascia l’unico spazio
ad una rauca voce interiore.
Nessuno può sentirti,
stella bruna nel ventre della terra,
il tuo suono è nascosto
dal velo notturno di questo gelo
e vibra, sottile e infinito,
nel presente eterno, eterno pensiero;
solo ferisci il sonno
come un sogno fuori dal tempo
quando batti sul tuo tamburo
e canti le sorelle del carro
col cui aiuto navigavano i Fenici,
quando ti trasformi in magra figura
tinta del sangue dei vulcani
– dal volto freddo e cereo – e gridi,
spalancandoti
nell’immenso respiro del dolore.
E immagini immani del passato
bruciano dentro gli occhi
come specchi di luce improvvisa,
quando la mente ha relegato all’occhio
qualcosa di più grande,
un sapore aureo e dolce
che si può riconoscere
quando la tenebra cerca di aprirsi
e un canto si fa più forte
accarezzando il cuore;
acqua e muschio concedono una forma,
un sorriso della natura dove assopirsi.
Questa pelle calda e bianca rammenta
ciò che è stato lasciato con un cieco gesto:
le nostre spoglie si spostano per spazi infiniti
e la paura cade nel suono
– siamo soli ed eterni
come nel camminare sulle cime del verde,
in questa pietra lucida e sempre uguale
di sola acqua che rapidamente scorre:
il sogno sublime dal quale ci sveglieremo
con un serpente di metallo dentro.
Quando tutto questo il dio del tempo
lascerà cadere in un sonno profondo
di gesti consueti,
guarderemo affranti verso il limite
dell’immensa distesa d’acqua,
specchio di gelo e nient’altro che gelo.
Ma io ti sento, invincibile e buia,
trasformata e confusa,
agitata dentro un rumoroso colore di universo
– una goccia di cristallo liquido
nel mondo microscopico d’un colpo d’occhio –
come il paesaggio di neve sciolta
che sembra essere innanzi,
come un dio che colpisce da lontano
dentro l’acqua che si perde alla vista,
principio delle cose, e dentro il dio
che dall’acqua con la mente le plasma.
E ancora forse fissare lo sguardo
è come perdersi nel pensiero
che si dilata e si fa ritmico,
e di qua, e di là, nell’orizzontale,
è il Tutto forse,
o ti sei lasciata cadere dentro me.
Ancora ascolto il tuo respiro farsi il mio,
chiudere gli occhi nel sonno
sembra ancora un gesto ultimo e mortale e certo,
non serbare memoria parrebbe
perdere la vista in una lunga strada di pietra
e sapersi il viso solcato da un silenzio sepolcrale;
così come sentire la fine ormai troppo vicina,
i pescecani dell’ombra farsi aghi di vento
e lacerare il mare fermo
– vedere i coralli spalancarsi in verticale,
in bocche argentee farsi abissi e luci:
se il lenzuolo scuro copre tutto dinnanzi,
voltando pagina è il bianco che diviene infinito.
Sei dentro me, poiché ti penso,
ed è come se il cielo s’aprisse in sogno
per lasciarsi dimenticare nell’attimo dopo;
mai mi riuscirà di partorirti
e spasimo e dolore mi fremono in corpo,
in un nodo di carne;
sei dentro me, bruciante,
se guardo il cielo e la terra
sembra sentirti parlare dal profondo
e muovere il corpo immenso
come un rettile antico.
Dentro una bocca e un grido al cielo
ascolto e vedo in un modo nuovo di agitarsi,
girarsi, muoversi nel letto d’acciaio,
avvolto dentro un lenzuolo
– altri occhi fiammeggianti e un’altra bocca:
non potrò vomitarti
mentre ti gonfi nello stomaco
come un liquido velenoso
né mai riuscirò a salire anch’io sul monte
e mostrarmi sul dirupo
come in un tempio celeste
e lasciarti cadere in zampilli e gabbiani
dentro lo specchio fosforescente dell’alba.
O specchio infallibile!
Verità dalla fiamma bluastra,
non posso guardare!
È un giorno d’Eclisse
che trasforma in pietra il tempo,
diventa presente eterno, eterno pensiero
– vedendo, definendo,
si palesa un frammento delle tenebre:
dentro il tempio
è come volessero ferire la terra
con lampi di ghiaccio.
Così sono,
gli Uomini Fisici dall’occhio fermo,
nell’oscurità di questo tempo,
supini su altari di marmo contemplano muti,
i loro corpi si bagnano d’una pioggia azzurrina
e forse si scavano nei cuori senza dire parola.
Così si distruggono!
In cima al monte lottano
come feroci minotauri,
del principio delle cose l’antico
è il sentirsi vivi,
con l’arma alla mano.
Scivolando dentro l’ovunque
si sollevano dal muschio
e portano in dono una manciata di terra
a noi tutti,
battendo rabbiosamente una porta,
aprendo una mano ferita.
Dentro la folta vegetazione
posseggono le loro travi di cristallo
e le loro costruzioni dimenticate dal mondo,
obliate da un frastuono metallico di moltitudini,
voce sola di un silenzio
che nessuno ha mai violato.
Grandi cose sembrano ignorare gli uomini:
la pupilla dilatata dei Fisici.
Essi si avvolgono nei loro mantelli di pietra,
con un gesto perpetuo, scompaiono nella nebbia,
senza ch’io me ne avveda.
Li riconosco:
così codardi mentre si nascondono,
così coraggiosi mentre sanno di soccombere,
dai visi scavati da un silenzio immortale...
Questo il pensiero meno sublime.
Le mani dei titani mostrano al cielo
le ferite terribili,
in una foresta spine ghiacciate
hanno lasciato i loro segni:
monti, fiumi, grandi percorsi,
zolle di terra che non conoscono
il passo degli uomini.
Dimenticare i demoni di roccia,
impassibili guardiani,
e non temere il braccio
che senti di sfiorare nella notte,
nel cammino dentro il buio:
la luna illumina profili perpetui
– troppo la mente li pensa,
ne alimenta il fuoco dentro la terra
e s’intorpidisce dentro gli elementi
– ma è distante dal vero,
ancora troppo lontana.
In immagini senza colore
cancellare i profili di fosforo,
nella notte che chiude
la voce dei vicoli e ferma l’aria,
che penetrano il pensiero
con segni enormi, sospiri,
colpiscono e feriscono.
Chi mi ha portato in un luogo così profondo?
Chi mi ha messo indosso questo mantello polveroso?
Chi mi spia da dietro il vetro e la ginestra?
Guardando innanzi, oltre la distesa,
sembrano smarrirsi in un piano infinito
i volti divini dell’acqua,
le antiche febbri crescenti,
come alberi dopo che Nettuno
ha allargato le sue braccia:
sono rami accasciati dentro la terra rossa,
in ogni lato hanno una bocca
che sputa fango e fuoco
– si riconoscono dal cranio di ciottolo levigato
tinto di alghe che le onde spostano
dalla terra al cielo, dal mare alla luna;
dai volti morenti che non sanno
in quale luogo lasciare riposare lo sguardo.
Immagini che sospirano le lunghe attese
degli uomini sempre soli, dentro il caos
– che enormi grida al cielo, dalla schiuma del mare!
L’occhio dei Fisici ascoso
non ha dolore né frammenti,
e tutto sospende nel nulla.
Dimmi, qual’è il canto che ascolti,
quale nota fosforescente e continua?
Quale giorno di pioggia,
quale impossibile autunno?
Ciò che la rauca voce ti dice all’orecchio,
ciò che con voce tremante rispondi...
No! Gli uomini quale grido al cielo compiono,
se sentono luce e infinito, e infinito buio!
1981
I testi, le immagini o i video pubblicati in questa pagina, laddove non facciano parte dei contenuti o del layout grafico gestiti direttamente da LaRecherche.it, sono da considerarsi pubblicati direttamente dall'autore Raffaele Sergi, dunque senza un filtro diretto della Redazione, che comunque esercita un controllo, ma qualcosa può sfuggire, pertanto, qualora si ravvisassero attribuzioni non corrette di Opere o violazioni del diritto d'autore si invita a contattare direttamente la Redazione a questa e-mail: redazione@larecherche.it, indicando chiaramente la questione e riportando il collegamento a questa medesima pagina. Si ringrazia per la collaborazione.