Pubblicato il 14/11/2009 02:45:14
Atto III _ Scena V
(Il palco è soffuso di una tenue luce gialla, come quella dei lampioni romani aboliti dal Sindaco: solo soffusi, umidi, bagliori squarciano il buio della scena. Le tavole sono coperte di foglie cadute di platano. In alto, un grande telo avorio fa da cielo, descrivendo un arco concavo verso il basso, come se sostenesse il peso di acqua piovana. La donna, capelli quasi color prugna, sfilzati in ciocche corte e lunghe, è vestita di una tunica bianca. Il tessuto cade come un peplo ma gli orli non sono battuti e la cimosa sfilaccia in qualche piega. È scalza, non ha monili se non un anello argentato con l’effige di un gatto, che avvolge il medio della mano destra). SiLENZio. (La prima donna entra dalla quinta sinistra e si lascia cadere sfinita sul letto di rossiccio fogliame). “Qualcuno le ha viste?” (Fruga disperata fra le foglie). “Non le trovo, non riesco a trovarle. Oddio, qualcuno mi aiuti!” (La voce si fa acuta e la donna protende il volto verso la prima balconata. Una luce bianca le illumina il viso. È cereo ma non è pallore: non ha labbra. La voce esce da un bianco taglio, quasi indistinguibile in tutto quel candore. Tende le braccia verso il vuoto). “ Signore, dico a lei: le ha, forse, trovate? E lei, signora, così bella, così elegante, forse colui che le ha rubate gliene ha fatto dono?” (Girandosi di scatto verso la prima fila in platea). “Forse lei, signorina. Lei così giovane, così perfetta, porta orecchini rosso melograno. Ne ha, forse, fatto monili per lei?” (Il pubblico è muto, stordito, quasi agghiacciato. La voce dell’attrice, da stridula, diviene roca, cupa). “Dove siete, maledette, dove vi ha sepolte?” (Si getta fra le fronde morte, tagliandosi le mani con le lamine, rotolandosi nel fogliame, guaendo, piangendo. Si accuccia, come una bimba atterrita e abbraccia le ginocchia, dondolandosi). “Le mie labbra, le mie belle labbra: rendimele, bastardo. Sono mie. Quando la promessa è infranta i doni si restituiscono, si restituiscono, si restituiscono.” (Singhiozzi e singulti sommessi le scuotono le membra, poi, con furia inaudita, danzando e schiantando, si accanisce, di nuovo, sul purpureo tappeto). “Lo so che siete qui, qui dove tutto scomparve, inghiottito dai giorni. Ma, ecco, vedo qualcosa. Sì, le vedo, le vedo.” (Pausa) “Oh, una dalia, una dalia color sangue, ancora fresca, con turgidi petali.” (Si leva in piedi, diritta e a tutti mostra, come ostia sull’altare, il gravido fiore. Lo spezza e, con estenuante lentezza, applica le due metà proprio sopra il mento). Poi, esibisce, novello Arcimboldo, la bocca ricostruita, il dono reso, il volto deturpato eppure perfetto nell’ottico effetto. Si tocca ripetutamente le corolle, lasciando che alcuni petali cadano, a confondersi con le foglie secche). (Il telo si squarcia e lascia cadere la pioggia). “Grazie, grazie signori che qui mi avete condotta. Sono salva. Sono salva”. (Si volta e con la schiena diritta ed il viso rivolto al cielo che la inonda, esce, scomparendo alla vista di tutti). (BUIO in sala). Per trenta secondi non si ode un sospiro. Poi, esplode l’applauso. Il pubblico è in piedi e batte le mani, fino a spellarsi i palmi delle mani. Non grida, non fischia, non invoca il bis. Rimane lì, in piedi e il plauso diviene una ritmica ovazione che si mescola al gorgogliare dell’acqua che viene inghiottita dalla buca del suggeritore. Una spettatrice, arrossata in volto e con gli occhi lucidi, si rivolge alla donna, che accanto a lei, è rimasta seduta. “Un capolavoro, incredibile. Un vero capolavoro!” L’altra, fruga nella borsetta, poi porta una mano alla bocca, quasi a coprire un colpo di tosse. Una dalia risponde, sorridendo: “Grazie: sono l’autrice”.
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