L’APPUNTAMENTO
Era stata una bella giornata di fine estate. Una di quelle giornate luminose e perfette in cui i turisti a Venezia si ubriacano di luce e poesia, perdendosi per le calli ad ammirare i ponti, i palazzi e gli scorci dei canali. Alfonso smise di suonare, poggiò con cura il violoncello e si avvicinò alla finestra, buttando l’occhio sul campo sottostante. La sua casa dava su campo Santo Stefano, in una zona defilata dai circuiti turistici. Una comitiva di giapponesi in quel momento era ferma accanto al pozzo, e mentre una guida indicava qualcosa, tutti volgevano in giro la testa con aria estasiata, rimbalzando lo sguardo dai muri scrostati alle bifore eleganti dei palazzi.
Una coppia sedeva al tavolino del bar, con le mani intrecciate davanti ai bicchieri colmi di un liquido rossastro. Nonostante fosse astemio, Alfonso condivideva spesso con gli amici il rito dell’aperitivo. Si chiedeva se quel raptus disinibito, che prendeva i bevitori delle happy hours, che a un certo punto andavano sempre a pescare con le dita la fetta di arancia o l’oliva sul fondo del bicchiere fosse dovuto solo all’alcool
«Non suoni più, Alfi?». Si era affacciata sua madre dal corridoio.
«Tra un po’ esco, ho un appuntamento.»
«Davvero? Sono felice per te! Cosa suonavi, Bach?»
«Sì, la Bourrée della terza Suite.»
«Suoni così bene, tesoro… non capisco perché non fai il solista in orchestra ogni tanto!»
«Facciamo sempre gli stessi brani per i turisti, mamma, le Stagioni e poco altro... non è il posto giusto per le Suite di Bach!»
«Forse, ma un bel concerto di Vivaldi, perché no?»
«Prima o poi lo farò…»
«Prima o poi, eh?» rispose, ironica.
Si diresse senza fretta verso Rio Marin. L’appuntamento era per le otto davanti alla stazione. Aveva il tempo per fare due passi in tutta tranquillità. La luce del sole era calata e l’aria cominciava a rinfrescare. Si stava proprio bene fuori. Sua madre l’aveva salutato con un sorrisetto ammiccante. Chissà cosa aveva pensato quando le aveva detto dell’appuntamento. Sperava sempre che prima o poi portasse una ragazza a casa. Povera donna, non si rassegnava all’idea di avere un figlio imbranato, poco tagliato per le questioni di cuore. Dopo essere rimasta vedova il suo desiderio più grande era vederlo sistemato. La sua ambizione inespressa di diventar nonna aleggiava tra loro come una triste chimera. Alfonso la osservava chiacchierare con qualche sua amica assediata da ciurme di ragazzini vocianti. La vedeva sospirare e coglieva nel suo sguardo rassegnato un muto rimprovero. Ciò lo addolorava, ma rimaneva comunque incapace di dominare il proprio destino. Sua madre si sarebbe meritata un figlio più coraggioso e determinato, non uno che come lui scantonava sempre per le strade secondarie della vita.
Chissà se avrebbe preferito uno come Niccolò.
Con Niccolò si conoscevano dagli anni del Conservatorio e un tempo erano stati molto amici, poi le loro strade si erano divise. Aveva fatto una carriera folgorante: lui era il brillante primo violino, il solista per eccellenza, l’istrione che il pubblico applaudiva fino al visibilio. Si incontravano ogni tanto, quando veniva ospite della sua orchestra, e in quelle occasioni, mentre aspettavano di uscire in scena, lo incalzava elencandogli le sue imprese. All’ultimo istante, mentre già prendevano posto tra gli applausi della gente, gli chiedeva distratto: «E tu…?» senza aspettarsi una risposta.
A volte si divertiva a prenderlo in giro:
«E allora, Alfonso, quand’è che tiri la testina fuori dal guscio? S’è fatto giorno… è ora di svegliarsi!».
A differenza della sua, la vita di Niccolò era una continua sovrabbondanza di occasioni e di opportunità di successo. Suonava in diverse orchestre con le quali girava il mondo; era stimato dalla critica, dal pubblico e dai colleghi. Nonostante i numerosi impegni era raro che rifiutasse un concerto. La fatica fisica non era una ragione sufficiente per rinunciare a una sola serata, al brivido del palco, all’inebriante euforia dell’esibizione. “La musica è la mia droga” diceva, scherzando. Ma Alfonso era convinto che, più che la musica, la sua droga fosse il successo. Ammirava la sua incredibile tecnica ma nelle sue esecuzioni c’era qualcosa che non lo convinceva. Era come un giocoliere che si allena sulla spiaggia, troppo concentrato nei suoi equilibrismi per accorgersi della magia del tramonto alle sue spalle.
Alfonso ripensava all’ultimo concerto in cui avevano suonato insieme, qualche settimana prima. L’aveva visto come al solito staccare l’archetto dalle corde con un guizzo sicuro, al termine di un’impetuosa cascata di suoni cristallini, eseguiti con una tale disinvoltura da lasciare tutti a bocca aperta. Le Stagioni di Vivaldi a tempo di record, poi altri bis a effetto lacrima, tra il delirio del pubblico che inneggiava al novello Paganini.
Alfonso osservava in disparte l’espressione di piacere assoluto stampata sul suo viso, avido di quell’overdose di successo. Era lui la star: gli altri musicisti avrebbero potuto sprofondare all’istante e né lui né il pubblico se ne sarebbero accorti. Le donne se lo mangiavano cogli occhi e scioglievano mascara e fondotinta in un‘esaltazione che rasentava l’isteria. Più montavano gli applausi più i numeri di Niccolò diventavano elettrizzanti e la sua aura si caricava di sensualità. Un altro bis e un’acme vertiginosa di scale e arpeggi che si arrampicavano velocissimi sui registri acuti, di suoni flautati e arditezze che non lasciavano scampo, finché esausto rientrava dietro le quinte. Approfittando della sua gloria, si divertiva spesso a giocare al gatto e al topo con qualche bella turista delle prime file, dispensando con sapienza sguardi assassini e sorrisi ammiccanti. In serate come quella la conquista era assicurata. Dopo aver riso e scambiato battutacce con gli amici in camerino, finalmente usciva in strada a scandagliare con sguardo vorace lo spiazzo antistante l’ingresso, alla ricerca della preda di turno, che quella sera era una biondina dai pomelli rossi per l’eccitazione, che lo aspettava timida in un angolo.
Gli amici l’avevano salutato con grasse risate allusive e i due si erano allontanati insieme.
Alfonso camminava assorto per le calli di Venezia. Quella sera era libero, per l’orchestra era giorno di riposo. Nel pomeriggio aveva ricevuto una telefonata di Niccolò.
«Ho bisogno di te, dovrei chiederti un piacere…»
«Se posso…» aveva risposto.
Era quasi arrivato alla stazione. Dall’alto del ponte degli Scalzi dominava la facciata barocca della chiesa e il piazzale moderno della stazione di Santa Lucia, sempre ingombro di passanti e turisti. Famigliole sedevano sulle pietre della riva con le gambe penzolanti sull’acqua, qualche bambino inseguiva i gabbiani. C’era un’atmosfera festosa. Gli occhi di quelli che arrivavano guardavano la cartolina veneziana al di là del canale registrando la loro prima impressione della città. Quelli che partivano si giravano a guardare lo stesso scorcio, nel tentativo di catturare un’ultima veduta nostalgica. Alfonso a volte li compativa perché erano costretti a lasciare Venezia, a volte invece li invidiava, perché la lasciavano giusto in tempo per non smascherarne la noia e la tristezza.
La ragazza era lì, seduta al bar, e si guardava in giro con impazienza. L’aveva riconosciuta dai lunghi capelli biondi e dalle gote rosse che risaltavano sulla pelle chiara del viso. Era proprio carina.
«Ciao, sono Alfonso.» Lei lo guardò senza capire.
«Sono un amico di Niccolò. Non poteva venire e ha mandato me. Gli dispiace non riuscire a salutarti … ma è stato chiamato all’ultimo momento per un concerto.»
Se sua madre avesse saputo a che tipo di appuntamento si stava recando quella sera, non si sarebbe fatta tante illusioni. Uno come lui che si accontenta di vivere ai margini dell’esistenza, riesce anche a nutrirsi degli scarti delle emozioni altrui.
«Esistono i telefoni…» rispose interdetta la ragazza. Lui sorrise imbarazzato.
«No, i conti non tornano, Alfonso. Me la sentivo che mi avrebbe scaricata, ma non avrei mai pensato che l’avrebbe fatto in modo così vigliacco!»
Lo guardava furibonda, quasi volesse prenderlo a schiaffi. Alfonso si sentiva a disagio e si diede dello stupido per aver acconsentito a quell’assurdo appuntamento.
«Devi dirmi qualcosa di lui! – lo incalzò lei, rabbiosa – Non può cavarsela così, capisci?»
I patti non erano certo quelli, ma quasi senza volerlo Alfonso iniziò a parlare. A poco a poco le spiegò chi era veramente Niccolò, di come era capace di vivere più realtà simultanee, riuscendo a imbastire con disinvoltura relazioni passeggere che lasciava sempre in sospeso. Le raccontò che in quel momento stava suonando in un'altra città, nella quale aveva anche una famiglia, e che tutto ciò era normale per lui. Sapeva di aver tradito la sua fiducia, ma la cosa non gli provocava il minimo rimorso. Per anni aveva avuto pena di tutte quelle sciocche ingenue che si facevano abbindolare da lui con tanta facilità.
Mentre parlava aveva visto emergere delusione e rabbia sul viso della biondina. Le lacrime le riempivano gli occhi ma si sforzava di ricacciarle indietro.
«Me la sono andata a cercare, sono proprio una stupida… - disse alla fine, sforzandosi di sorridere - ma la lezione mi è servita. Ti ringrazio per avermi aperto gli occhi, Alfonso. Come dice una canzone, Venezia è un inganno…»
«Venezia non c’entra, siamo noi a voler essere ingannati.»
La ragazza guardò l’orologio, erano quasi le nove.
«Il mio treno sta per partire, – disse, poi lo guardò negli occhi. - Mi ricordo di te, sei il violoncellista dell’orchestra. Vorrei aver conosciuto te al posto suo.»
Si interruppe, poi a voce più bassa.
«Ma forse non è troppo tardi… il prossimo mese devo tornare per motivi di studio.»
Scrisse velocemente un numero sullo scontrino del bar e glielo porse.
«Mi piacerebbe sentirti suonare, - aggiunse sorridendo – scommetto che sei proprio bravo!»
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