Sebbene non ci abitueremo mai a spingerci “oltre” la monotonia di tanta letteratura consumistica, sembra arrivato il momento di doverci impegnare in una lettura straordinariamente impegnativa, superando noi stessi. Dopo “La rovina di Kasch”, “Ka” e “K”: simultaneamente dall’India vedica a “l’innominabile attuale” di questo “L’Ardore”, con “la sottesa disponibilità a riconoscere un’immensità che tutto travolge e ovunque è avvertibile”, Roberto Calasso ci invita a una rilettura critica dei testi che compongono il Rgveda “come un mondo in sé compiuto”, oggi di assoluta attualità, quasi minimalista, per un ritorno all’espressività “filologica e filosofica” delle origini dell’umanità e dell’intero creato. Da subito, veniamo immersi in un Casting in stile Bollywood, dove con nostra grande sorpresa, tutto diventa possibile, anche l’impossibile. Allora: “la terra, lo spazio intermedio, il mondo celeste” sono la scena, lo sfondo sul quale si muovono i protagonisti: gli dèi e gli eroi dei miti ancestrali, mentre dietro le quinte s’agita tutto l’universo, il visibile, l’invisibile, l’ignoto delle nostre eterne paure, del nostro dramma, sempre attuale, legato alla nostra esistenza: “Un dramma autistico che, non aveva conosciuto requie né la consolazione di uno sguardo esterno, che potesse compatire o condannare – non importava –, ma comunque partecipare a ciò che avveniva. Né i prodigi né le disfatte si distinguevano dai miraggi. Eppure erano l’unica sostanza di cui Prajapati disponesse. Da essa doveva nascere, dopo lunga elaborazione, ciò che un giorno – ingenuamente – sarebbe stato chiamato realtà”.
Il linguaggio è indubbiamente quello aulico che conoscevamo già in “Le nozze di Cadmo e Armonia”, anche se qua e là l’autore (grandissimo) rimette la sua eloquenza al servizio del lettore, affinché possa addentrarsi nei labirinti dei nomi e delle corrispondenze, non facili da seguire per l’inesperto che vi si addentra, e che, tuttavia, vi scopre quell’universo mistico-contemplativo, in certo qual modo ancora “inesplorato” perché volutamente ignorato, entrato di recente nel pensiero occidentale. Ove l’ “ardore” sta a rappresentare il “fuoco” nelle sue più disparate e voluttuose accezioni; ma anche il trasporto, l’entusiasmo, la veemenza, e non in ultimo, la “tenacia creatrice della divinità”, controparte alienabile della “folgore distruttrice dell’umanità” che, non potendo raggiungerla in pieno, non può che cercare nell’ascesi, la spinta verso l’ “immanifesto” che si rivela, alla base dei rituali di tutte le religioni. Ovviamente c’è molto di più, di quello che ho potuto dire nello spazio angusto di una recensione parziale, di un lavoro enciclopedico (530 pagine), stracolmo di riferimenti e richiami letterari fino ai giorni nostri, e con i limiti ovviamente del modesto lettore qual io sono. Per cui la scelta di una lettura siffatta, diventa ragione arbitrale di un percorso conoscitivo che va appunto “oltre”, ove la libertà di scelta diventa “arbitrato” di una motivazione, per una predilezione che posso definire “elettiva”.