MAESTRO CIRO
Ariana non riusciva a non guardare fuori dalla finestra. Sul ramo di un albero del cortile si era posato un merlo. Era il sesto merlo che vedeva quel giorno. Lo vedeva bene perché stava su un ramo che sporgeva proprio verso la scuola. La guardava con aria interrogativa e un po’ diffidente, col suo occhio tondo e il becco giallo. Anche tre passeri, due gazze e quattro piccioni si erano posati sull’albero quella mattina.
«Ariana stai attenta, non ti distrarre!» la richiamò la maestra, e si rivolse poi alla nuova insegnante di sostegno che le sedeva accanto.
«Quella bambina mi preoccupa, la vedo regredita, è come assente. Peccato, l’anno scorso aveva fatto tanti progressi con Ciro! Andava matta per la matematica, contava sempre tutto.»
Era la quinta volta che la maestra la richiamava ma non le importava. La scuola era iniziata da due settimane ma lei non aveva più voglia di andarci, dopo aver scoperto che non c’era più maestro Ciro. Il primo giorno l’aveva cercato a lungo per i corridoi, e dopo esser entrata in classe aveva ancora sperato fino all’ultimo che arrivasse, magari in ritardo.
Poi le avevano detto che non c’era più, che era stato trasferito. Non voleva crederci: se n’era andato senza salutarla, senza dirle niente, con la complicità di quell’interminabile estate calda. E pensare che aveva contato tutti i giorni che la separavano dall’inizio della scuola: uno, due, tre, … più di novanta!
Ciro le mancava, come avrebbe fatto adesso? Nessuno come lui sapeva farla ridere, farla sentire bella, brava… normale! Da piccola aveva avuto una leggera paralisi e trascinava un po’ la gamba sinistra. Tra un passo e l’altro non riusciva a contare allo stesso modo perché il piede sinistro ci metteva sempre il doppio del destro. Ma insieme a lui riusciva a dimenticarsi del suo problema.
Un giorno Ciro le aveva chiesto:
«Com’è che ti chiami Ariana con una enne sola? Dove sta l’altra?»
Un bambino antipatico si era intromesso:
«Non le manca solo una enne, le manca anche una rotella!».
Lei gli aveva raccontato che era moldava, che era arrivata in Italia da piccola con la madre e che non aveva mai conosciuto suo padre.
Ciro era buono e simpatico, l’aiutava a fare i compiti e anche studiare era divertente con lui. Facevano la gara delle tabelline. Lei era velocissima, vinceva sempre e lui ogni volta esclamava: “Sei proprio un portento!”
Le aveva anche insegnato a cantare e a recitare. Le diceva che aveva una bellissima voce e l’aveva preparata per la recita finale, assegnandole una delle parti principali.
Lo spettacolo era stato un momento magico, indimenticabile. Faceva la parte della regina e tutti i genitori la guardavano, mentre seduta al centro della scena sorrideva felice, con una corona di cartone in testa e un vestito lungo e vaporoso che le nascondeva le gambe. Gli altri bambini le giravano attorno danzando, poi si sedevano mentre lei cominciava a cantare. L’avevano applaudita per trentasei secondi, li aveva contati tutti. Sua madre si era emozionata e si era soffiata il naso.
Ciro aveva un sorriso ampio e caloroso, era robusto e solido come una quercia, aveva mani grandi e forti che sapevano essere delicate con i bambini. Era napoletano e parlava con un accento strano che la divertiva. Ariana sentiva un tuffo al cuore ogni volta che lo vedeva arrivare e voleva sempre abbracciarlo. Le sembrava di sciogliersi nel calore del suo corpo e si sentiva dentro uno strano rimescolamento mentre annusava il buon odore che avevano i suoi vestiti.
Dopo un po’ lui se la staccava da dosso e ridendo le diceva:
«A piccerì, sì proprio ‘na zecca!»
Quando aveva caldo e si toglieva il maglione, lei gli contava i bottoni della camicia: sette e due nove.
Ciro per lei era speciale, era bellissimo, anche se qualche suo compagno diceva che era un mostro perché aveva un occhio di vetro. All’inizio non sempre capiva dove stesse guardando ma poi si era abituata a riconoscere l’occhio giusto. In fondo cosa c’era di strano? Anche un personaggio dei cartoni animati aveva un occhio solo perché veniva da un altro pianeta.
Forse anche Ciro veniva da un altro pianeta. Diceva che era normale essere diversi, che in qualche modo siamo tutti diversi, che non sarebbe divertente essere tutti uguali, tutti con due occhi o con due gambe identiche.
Ariana aveva un sogno segreto che non aveva mai confidato a nessuno: da grande avrebbe voluto sposarlo. Non le importava se anche avesse avuto dei figli con un occhio solo.
Ma forse lui aveva capito che lei lo amava e proprio per questo se n’era andato, com’era successo a sua madre. Si ricordava bene quando la mamma aveva litigato col suo ultimo fidanzato. Dall’altra stanza li aveva sentiti urlare e si era tappata le orecchie, affannandosi a contare le piastrelle del pavimento. Poi lui era uscito sbattendo la porta e sua madre era rimasta a singhiozzare in cucina. Quando le si era avvicinata, abbracciandola le aveva detto:
«Non innamorarti mai di nessuno, Ariana, perché gli uomini sono fatti così: se li ami troppo ti abbandonano.» E così infatti era successo: Ciro se n’era andato perché lei lo amava.
Il suono della campanella. Era ricreazione, il momento più triste della giornata. Gli altri bambini si alzavano, correvano e giocavano mentre lei rimaneva seduta in un angolo.
Vide la maestra venirle incontro sorridendo:
«Ariana, indovina chi viene a trovarci oggi…»
Il suo sguardo corse impaziente verso la porta, da dove si affacciava un occhio che avrebbe riconosciuto tra mille. Era proprio lui, che le sorrideva aprendo le braccia per accoglierla.
Non ricordava di essere mai stata tanto veloce in vita sua. In tre secondi gli era saltata al collo e lo abbracciava forte, mentre il grumo di tristezza accumulato negli ultimi giorni si scioglieva in un fiume di lacrime.
«Uè, piccerì, che sò ‘sti lacrimoni! Mi stai bagnando tutta la camicia! Su, fammi un sorriso, hai visto che sono venuto a trovarti?»
«Perché te ne sei andato? È vero che ti hanno trasferito?»
«Sì, è vero, ma non mi rassegno, sai! Sto facendo di tutto per tornare, e forse ci riesco! Guarda che non mi dimentico di te, non ti lascio sola…»
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