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Il tempo del ritorno

di Giulia Bellucci
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Pubblicato il 06/09/2019 14:51:58

«Non preoccuparti, papà, non vado via per sempre. Studierò e poi tornerò, e ti darò una mano con la terra. La trasformeremo in una grande azienda agricola.» 

Con queste parole di speranza Damiano salutò suo padre, e non erano parole di circostanza, ma sancivano una promessa solenne, una sorta di giuramento. Luigi Enrico aveva guardato suo figlio con tristezza ma aveva taciuto. Gli aveva porto un rotolo di carta, che aveva celato nella sua mano forte e ruvida, dicendogli di farne buon uso. Erano i soldi che aveva appena ricavato dalla vendita dei fichi di quella stagione e costituivano per Damiano un regalo che si assommava agli altri che il padre gli aveva già dato. Che in una grande città, come Bologna, la vita fosse molto più costosa, era risaputo e Luigi non voleva che suo figlio si trovasse in difficoltà. Erano soldi guadagnati con fatica e sudore ma erano ben spesi se investiti nel futuro di suo figlio. 

Si salutarono sotto il vecchio ulivo, all’ombra del quale Luigi Enrico soleva sedere quando voleva rinfrancarsi dopo ore di duro lavoro. 

Damiano partì alla scoperta della vita in città. Fino ad allora non aveva visto niente al di fuori della sua Calabria, a parte Roma durante la gita del quinto anno di Liceo. Aveva imparato il mestiere del contadino seguendo suo padre fin da bambino, quando, al ritorno da scuola, si dedicava a raccogliere le olive, a falciare erba, a fare quello che c’era da fare in quel periodo dell’anno. Studiava di sera, anche quando gli toccava farlo a lume di candela perché non avevano ancora l’energia elettrica. 

Ora partiva e sarebbe tornato con una laurea in Giurisprudenza, perché un contadino illuminato è meglio di uno ignorante: per non essere imbrogliato da coloro che erano più istruiti e furbi e per aiutare gli altri poveri come lui.

Mantenne la promessa fatta a Luigi e in quattro anni divenne dottore in legge con 110 e lode.

Tornò a casa da suo padre, che si sentiva fiero di lui e non lo nascondeva affatto anzi se ne vantava con tutti i conoscenti. Damiano però rimase in Calabria solo qualche mese perché una strada non si lascia incompiuta e c’era già uno studio legale a Bologna che lo attendeva per il tirocinio in vista dell’esame che gli avrebbe consentito di iscriversi all’albo degli avvocati.

Luigi Enrico gli diede la sua benedizione una seconda volta. Il peso degli anni iniziava a farsi sentire sulle spalle un po’ curve e le sue mani, indurite dai calli, facevano ancora più male. Però un padre stringe i denti e va avanti perché un figlio non si può abbandonare prima che si sia definitivamente sistemato. 

L’impegno di Damiano si dimostrò ancora una volta lodevole e quando fu avvocato tornò da suo padre. Tutto però gli sembrò più piccolo, ristretto dal tempo, come succede alla biancheria di lana dopo un lavaggio con acqua calda. La casa era più piccola, persino la terra, e suo padre, ancora più curvo, non era più quel gigante che lo portava sulle spalle da bambino. Anche le strade del paese erano più corte e la piazza vuota. I suoi amici erano altrove: a Roma, a Milano, a Londra e qualcuno in America. E lui cosa ci faceva lì e quale futuro lo attendeva? Suo padre gli diceva:

«Apri uno studio legale e nel tempo libero mi aiuti a tirare avanti l’azienda.»

«Sì, ma i clienti in un paese ormai deserto, dove li trovo? A Bologna nello studio dell’avvocato Bergotti mi aspettano. C’è un posto per me e non so per quanto tempo ancora ci sarà. Voglio andare, papà. Devo costruire altrove il mio futuro, giacché qui non ce n’è! Troverò una casa grande e tu e mamma mi raggiungerete. Vivrai meglio, non dovrai più ammazzarti di fatica.»

«Figlio, io non posso trattenerti. Vai!»

Damiano ritornò a Bologna ma suo padre non volle seguirlo, neppure quando, alla morte di sua moglie, rimase solo.

Damiano per convincerlo, perché non si sentiva tranquillo a pensarlo da solo, e giacché si faticava a trovare manodopera per i lavori di campagna, decise di vendere il terreno. Luigi Enrico si sentiva sconfitto e cercò di persuadere Damiano.

«Questo terreno lo aveva acquistato mio nonno Luigi nel lontano 1895, più di un secolo fa! Qui vi nacque mio padre Damiano Antonio, e poi io e infine tu. Devi sapere che ai miei tempi, dopo il servizio di leva, mi si presentò l’occasione di restare nell’esercito e fare carriera. Ma io non ho abbandonato la mia terra e la mia famiglia. Ho scelto di restare. Questa terra è stata mia e ora è tua. Non può finire in altre mani. Vedi quell’ulivo? Fu il primo albero che vi piantò Luigi, quando ne entrò in possesso. Se ti siedi sotto la sua ombra e presti orecchio, lo sentirai parlare. Esso custodisce tutte le voci della nostra famiglia. Perché i giovani abbandonate così le vostre terre?»

«Papà, cerca di capirmi. Tu sei anziano e non te ne puoi occupare. Bisogna venderla, non abbiamo scelta.»

Luigi si arrese e accettò di vendere, ma non di seguire suo figlio a Bologna.

Lo attendeva un posto nella casa di riposo del suo paese e chiese di poter rimanere in quella, che era stata da sempre la sua casa, fino a quando il nuovo proprietario non sarebbe venuto a demolirla per costruirvi una fabbrica. 

Un giorno venne un postino, che Luigi non conosceva. 

«Siete voi Luigi Enrico Gatto?»

«Sì! Sei nuovo! Da dove vieni?»

«Sono di Corigliano e non conosco ancora tutte le strade del paese, soprattutto le contrade. Perché non vi trasferite in paese, qui intorno non ci vive più nessuno. Una persona anziana non può stare da sola lontano dal centro abitato!»

Poi gli consegnò una raccomandata. 

«Io non ci vedo bene» gli disse Luigi. «Me la leggi?»

«Dice che il 10 settembre verranno le ruspe per buttare giù tutto e per allora devi essere andato via.»

«Va bene» rispose.

Dopo due settimane tornò con un’altra lettera e gli domandò:

«Vuoi che te la leggo?» 

«Grazie, non c’è bisogno.»

Passati degli altri giorni, arrivò una terza lettera e poi, il 6 settembre, l’ultima e tutte finirono stracciate senza essere aperte. 

La mattina del 10 settembre Luigi Enrico si svegliò e attese l’arrivo delle ruspe. Verso le 10,00 sentì il rumore di motori. Pensò che fosse il momento ma lui non  sarebbe uscito da lì, non vivo.

Sentì una voce gridare il suo nome e non rispose. 

«Non c’è più nessuno, possiamo procedere. Voi due abbattete gli alberi vicino all’abitazione, per primo questo ulivo. Voi altri iniziate a piazzare l’esplosivo nel fabbricato.»

Luigi Enrico ascoltava in silenzio, rassegnato a tutto. Eppure gli dispiaceva più per l’ulivo che per se stesso.

Si udirono delle voci concitate ma non distingueva le parole. Pian piano una di esse assunse dei connotati familiari. Era Damiano o forse era solo una sua fantasia?

«Fermatevi, l’assegno non era coperto, era solo un imbroglio. E io ho cambiato idea, non vendo più. Qui nessuno butta giù nulla.»

Gli operai si guardavano increduli.

«Credo che dobbiate vedervela con De Benedetto. Noi ce ne andiamo...» disse uno e così ripresero ciascuno il proprio mezzo e se ne tornarono indietro da dove erano venuti, borbottando e imprecando per il viaggio fatto inutilmente.

Solo dopo che se ne furono andati, Luigi Enrico uscì fuori speranzoso. 

«Perché sei qui?» chiese a suo figlio.

«È tempo di vendemmia!»

Luigi Enrico non capiva e lo guardava a bocca aperta.

«C’è un tempo per ogni cosa, papà. Uno per andare, ma anche uno per tornare e sono tornato per avere il tuo perdono. È tempo di ricominciare. Qui! Nella mia terra. La nostra terra.»

 

 


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