[ Proposto anche nell'antologia Conversazioni con Proust, LaRecherche.it, 2011, eBook ]
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La scienza dell’amore, il sapere del mondo, la passione della verità.
Gilles Deleuze lettore di Proust.
«Un uomo nato sensibile, ancorché privo di immaginazione, potrebbe scrivere romanzi stupendi. Le sofferenze causategli dagli altri, i suoi sforzi per prevenirle, i conflitti insorti fra lui e l’altra persona crudele, tutto questo, interpretato dall’intelligenza, potrebbe fornir materia a un libro… altrettanto bello che se fosse stato immaginato, inventato»
(Marcel Proust, Il Tempo ritrovato)
1. Una ragnatela di segni: il mondo come appare
Il passaggio attraverso l’opera di Marcel Proust è fondamentale nel percorso filosofico di Gilles Deleuze. Insieme al saggio su Sacher-Masoch, un testo che è certamente tutto fuorché un tentativo di “psicoanalisi applicata” [1] o di analisi filosofica di una malattia della mente, la riflessione deleuziana sul grande romanziere francese è un nodo teorico che non si può evitare di sciogliere pena l’incomprensione del suo progetto di pensiero. L’incipit di questo saggio dedicato quasi esclusivamente alla Recherche è folgorante, ammirevole nella sua chiarezza dimostrativa, esemplificatrice dello scopo della ricerca in corso:
«In che consiste l’unità di Alla ricerca del tempo perduto? Sappiamo almeno in che cosa non consiste. Non consiste nella memoria, nel ricordo, sia pure involontario. L’essenziale della Ricerca non sta nella “madeleine” o nei “pavés”.Da un lato, la Ricerca non è semplicemente uno sforzo per ricordare, una esplorazione della memoria: il termine “ricerca” va preso nel suo senso più forte, come nell’espressione “ricerca della verità”.D’altra parte, il tempo perduto non è semplicemente il tempo passato; è anche il tempo che si perde come nell’espressione “perdere tempo”. La memoria, s’intende, interviene come un mezzo nella ricerca, ma non è il mezzo più profondo; il tempo passato interviene come una struttura del tempo, ma non è la struttura più profonda. In Proust, i campanili di Martinville e la piccola frase di Vinteuil, che pure non fanno intervenire nessun ricordo, nessuna resurrezione del passato, conteranno più della “madeleine” o del selciato di Venezia, che dipendono dalla memoria e, a questo titolo, rimandano ancora a una “spiegazione materiale”» [2].
In che cosa consiste, allora – si chiede Deleuze – la sostanza profonda, la verità perseguita, il gesto fondativo della Recherche? Si tratta dell’idea che il mondo reale è costituito, innervato sotterraneamente, costituito cioè di segni. Questi elementi di identificazione della realtà variano a seconda dei soggetti e delle definizioni ma è solo identificandoli, scrutandoli, investigandoli che il mondo potrà essere ricondotto alla sua verità ossia alle sue essenze reali. I segni dunque sono la tessitura narrativa di una vicenda – quella proposta dal Narratore – in cui tutto quello che viene descritto ha una funzione precisa e vuole essere non l’espressione di un disegno della memoria che rivendica la sua verità circostanziale quanto una precisa evoluzione della mente che cerca ovunque tutto ciò che le occorre per andare incontro a una situazione in cui far convergere la propria ricerca di segni assoluti, di “essenze ideali”. Dunque, la Recherche proustiana è apprendimento dei segni, comprensione delle tante situazioni in cui essi si rivelano e si ritrovano, forma fenomenica delle realtà specifica in cui essi si aggregano e si raddensano, come tante tracce e striature sulla mappa topografica di un mondo di cui si vuole avere ragione e non si riesce a trovare il significato profondo, autentico. Per questo motivo, la ripartizione dei segni è così importante nella proposta ermeneutica di Deleuze: senza di essi gli episodi diversi e ramificati di cui la Recherche è composta non potrebbero essere compresi e restituiti a una pur transitoria, spesso cangiante unità.
Il mondo come appare è, di conseguenza, fatto di segni di apparenza più o meno decifrabile, dei rapporti tra di essi e delle conseguenze spesso fatali, se non letali della loro interpretazione (sbagliata, inesatta o anche giustificata successivamente dai fatti).
«All’idea filosofica di “metodo”, Proust oppone la duplice idea di “costrizione” e di “caso”. La verità dipende da un incontro con qualche cosa che ci obbliga a pensare, e a cercare il vero. La casualità degli incontri, il premere delle costrizioni sono i due temi fondamentali di Proust. Precisamente, il segno è ciò che è oggetto d’un incontro, che esercita su noi quella violenza. Ed è la casualità dell’incontro a garantire la necessità di quanto viene pensato. Fortuito e inevitabile, dice Proust. “E intuivo che proprio questo doveva essere il segno della loro autenticità. Non ero stato io a cercare i due ciottoli ineguali del cortile, nei quali ero inciampato”. Che vuole colui che dice “voglio la verità”? La vuole solo in quanto costretto e forzato, solo sotto la presa di un incontro, in rapporto a un segno determinato. Ciò che vuole è interpretare, decifrare, tradurre, trovare il senso del segno. “Il mio compito era, dunque, quello di restituire ai menomi segni che mi circondavano (i Guermantes, Albertine, Gilberte. Saint-Loup, Balbec, ecc.) il loro significato”. Cercare la verità è interpretare, decifrare, spiegare. Ma questa spiegazione si confonde con l’evolversi del segno in se stesso. Per questa ragione la Ricerca è sempre temporale, e la verità sempre condizionata dal tempo. La sistematizzazione finale ci ricorda che anche il tempo è plurale. La grande distinzione a questo proposito è quella tra Tempo perduto e Tempo ritrovato. Vi sono verità del tempo perduto non meno che del Tempo ritrovato» [3].
Sono pagine celebri quelle cui qui allude Deleuze, pagine in cui Proust sembra tirare le fila del suo percorso diritto filato diretto verso la Morte. Nell’ultimo libro della Recherche, proprio nelle pagine che sono state scritte, invece, per prime, il Narratore compie quei passi/passaggi che lo porteranno verso la ricoperta/ritrovamento/realizzazione della dimensione assoluta del Tempo.
Sarà importante rileggerle ancora una volta prima di interpretarle ancora una volta (dato che su di esse, nonostante la grande massa di interpretazioni filosofiche e non presente oggi, la critica continua ancora ad esercitarsi indefessamente [4]) :
«Non solo certe persone hanno memoria e altre no (senza arrivare all’oblio costante in cui vivono le ambasciatrici di Turchia e altri, oblio grazie al quale possono sempre – la notizia precedente essendo svanita nel giro d’una settimana, o la seguente avendo il potere di esorcizzarla – trovar posto per la notizia opposta di cui li si metta al corrente) ma, anche a parità di memoria, due persone non si ricordano delle stesse cose. Uno ha prestato poca attenzione a un fatto per cui l’altro continuerà a nutrire grandi rimorsi e, in compenso, ha afferrato al volo come qualcosa di simpatico e caratteristico una parola che l’altro si è lasciata sfuggire quasi senza pensarci. L’interesse di non essersi sbagliati quando si è fatto un pronostico falso accorcia la durata del ricordo di tale pronostico, e consente ben presto d’affermare di non averlo emesso. Infine, un interesse più profondo, più disinteressato, diversifica le memorie, tanto che il poeta, quasi completamente dimentico dei fatti che gli rammentiamo, serba in sé un’impressione fuggevole. Conseguenza di tutto questo è che dopo vent’anni di assenza ci imbattiamo, anziché in rancori presunti, in perdoni involontari, inconsapevoli, e – in compenso – in tanti odii di cui (poiché abbiamo dimenticato a nostra volta la cattiva impressione suscitata) non riusciamo a spiegarci la ragione. Persino della storia delle persone conosciute meglio abbiamo dimenticato le date. [...] E quante volte queste persone mi erano tornate davanti nel corso della loro vita, le cui varie circostanze sembravano presentare gli stessi esseri, ma sotto forme e per fini differenti; e la diversità dei punti della mia vita per cui era passato il filo di quella di ciascuno di tali personaggi aveva finito col mischiare quelli che sembravano più distanti, quasi che la vita possedesse un numero limitato di fili per eseguire i disegni più diversi» [5].
Questo “numero limitato di fili” scandisce la dinamica dei segni che costituisce i diversi mondi in cui la vita di ognuno è suddivisa, contraddistinta, contrassegnata, redistribuita. Il livello (quantitativo e qualitativo) dei segni che portano verso la conoscenza della verità che attinge ai diversi mondi che li contiene al loro interno è, a sua volta, molto diverso e può essere rilevato come più o meno importante a secondo della qualità dell’impegno relativo al suo riconoscimento ma tutti indistintamente costituiscono il quadro generale in cui si situa la narrazione fondante dell’opera narrativa di Proust.
2. I segni e il senso: parabola della società e grammatica dell’amore
Per questo motivo, definire la natura dei segni stessi è centrale per comprendere come si articola e si sviluppa l’intelaiatura concettuale che sorregge il disegno epistemologico della scrittura proustiana. I segni appartengono – come si può facilmente intuire – a diverse catene circolari di comprensibilità del mondo, a diverse face di esistenza umana, a differenti modulazioni dei bisogni e dei desideri umani. Il “primo cerchio” sarà, allora, quello della mondanità, della società alto-borghese e tardo-aristocratica in cui il Narratore si muove con la facilità che gli è concessa dalla sua appartenenza ad essa. I “segni mondani” sono i più semplici da interpretare (loro caratteristica è la “distinzione” [6] dei modi e della cultura che, ad esempio, i Guermantes hanno e che manca ai Verdurin). Ma questo non vale sempre: l’accettazione o meno in società è qualcosa che può talvolta essere legato a sfumature non facilmente comprensibili (come avviene nel caso del barone di Charlus il cui comportamento è spesso oscuro o incomprensibile per il Narratore). Nel mondo della mondanità, il segno si fa convenzione, si stringe intorno alle “maschere di carattere” sociale che essa rappresenta, deriva il suo senso dall’essere segno e non viceversa.
«Il segno mondano non rimanda a qualche cosa, ne “prende il posto”, pretende di valere per il suo senso. Anticipa l’azione come il pensiero, annulla il pensiero come l’azione, e si dichiara sufficiente. Da ciò, il suo aspetto stereotipato, la sua vacuità. Non concluderemo per questo che tali segni siano trascurabili. Un apprendimento che non passasse attraverso di essi sarebbe imperfetto e perfino impossibile. I segni sono vuoti, ma questa vacuità conferisce loro una perfezione rituale, quasi un formalismo che non è possibile ritrovare altrove. Solo i segni mondani sono capaci di dare una sorta di esaltazione nervosa, che esprime quale sia su di noi l’effetto delle persone in grado di produrli» [7].
I soggetti che agiscono, dunque, non valgono per quello che sono (i loro sentimenti sono coperti, velati, nascosti dalle occorrenze sociali) ma per la figura che incarnano e rappresentano, per quello che presentano (e per come si presentano) frontalmente davanti agli altri stessi membri della loro classe di appartenenza. I “divini mondani” (per usare il titolo di un bel libro di Ottiero Ottieri ormai dimenticato) sono tali solo se non mostrano la verità che celano all’interno dei loro intérieurs; quando lo fanno (è il caso di Charlus ma anche di Swann e dello stesso Narratore) perdono l’aura che la loro posizione di frequentatori della haute société potrebbe avergli permesso di ricevere e di sfoggiare. Da ciò – come ha scritto Benjamin in un saggio celebrato e forse sociologicamente un po’ troppo ambizioso - la loro postuma comicità, la loro incapacità a essere presi sul serio:
«La caratteristica di Proust non è l’umorismo, ma la comicità; in lui il riso non solleva il mondo, ma lo scaraventa a terra. Col pericolo che vada in pezzi, di fronte ai quali scoppierà egli stesso in lacrime. E vanno effettivamente in pezzi l’unità della famiglia e della persona, della morale sessuale e del decoro sociale. Le pretese della borghesia vanno in pezzi nel riso. La sua via di scampo, la riassimilazione da parte della nobiltà. È il tema sociologico dell’opera. Proust non si stancò del continuo allenamento che era necessario per poter frequentare i circoli feudali. Tenacemente, e senza grande sforzo, egli modellò la sua natura per renderla impenetrabile e ingegnosa, devota e difficile come richiedeva il suo compito. Più tardi la mistificazione, il formalismo, la cerimoniosità diventò una sua seconda natura al punto che talvolta le sue lettere sono interi sistemi di parentesi (e non solo grammaticali) […] Non è la quintessenza dell’esperienza, apprendere come siano estremamente difficili da apprendere cose che in apparenza si potrebbero dire in poche parole? Solo che queste parole appartengono a un gergo di casta e di classe, e gli estranei non le possono capire. Non c’è da stupirsi che il gergo dei salotti appassionasse Proust. Quando, più tardi, egli si accinse alla spietata descrizione del petit clan, dei Courvoisier, dell’esprit d’Oriane, aveva imparato egli stesso a conoscere, frequentando i Bibesco, le improvvisazioni di un linguaggio a chiave a cui anche noi siamo stati iniziati solo da poco» [8].
Il mondo della mondanità, dunque, è connotato da un gergo che si rivela solo attraverso i segni che lo denotano. Gli strani personaggi che lo popolano sono, in realtà, portatori di una dimensione sociale che è stata completamente travasata nella loro umanità. Essi sono soltanto l’espressione della loro collocazione nel mondo in cui vivono e solo ad essa possono rimandare.
Per questo motivo, il secondo cerchio, quello dell’amore, presenta segni più intimi e sicuramente di maggiore articolazione psicologico-esistenziale. Il caso rappresentato da “un amore di Swann” (ma anche quello relativo al rapporto Charlus-Jupien, peraltro) è tra i più significativi in questo campo. L’amore – a differenza della mondanità – si può leggere sui volti e sui corpi. La verità che esso rappresenta può essere intuito dalla perspicacia in-sensata dell’amante nel momento in cui cerca di coglierne i segni e la possibilità auspicata nella soggettività stessa dell’amata/o.
Proust capovolge qui una tradizione tipicamente francese che vedeva nell’amante l’oggetto privilegiato dell’amore: erano le sue reazioni a interessare chi si provava a stendere una “grammatica dell’amore” sulla base dei segni della sua passione:
«Secondo la mentalità ancora ‘stendhaliana’ da cui è venata la moderna concezione dell’amore, esso non è dunque legato a un progresso della conoscenza o a una crescita della costanza, della sicurezza e della gioia. I suoi tratti distintivi sono piuttosto offerti dalla nebulosità delle emozioni, dall’imprevedibilità degli eventi e dei loro sviluppi (in termini logici, l’amore ricambiato è altamente improbabile e la sua natura è caratterizzata dalla fragilità), dai pericoli che in ogni momento circondano la vita di ciascuno e dalle fluttuazioni non smorzate dell’animo. […] L’immaginazione e le emozioni svolgono ora un ruolo esclusivo. L’ammirazione mette in movimento l’immaginazione, che finisce per adornare l’essere amato di tutte le possibili perfezioni: “Lasciate lavorare la testa di un innamorato per ventiquattr’ore, ecco che cosa vi troverete: nelle miniere di sale di Salisburgo si usa gettare nelle profondità abbandonate un ramo privato di foglie dal gelo: due o tre mesi dopo lo si ritrova coperto di fulgide cristallizzazioni: i più minuti ramoscelli, quelli che non sono più grossi dello zampino d’una cincia, sono fioriti d’una infinità di diamanti mobili e scintillanti; è impossibile riconoscere il ramo primitivo”. Questa è la famosa “prima cristallizzazione”. Essa non è tuttavia sufficiente a conservare l’amore, perché l’anima si stanca di ciò che è uniforme e quindi persino della felicità. A questo punto subentra il dubbio e con esso la speranza e la paura» [9].
Per questo motivo, i segni della cerchia in cui è racchiuso il mondo amoroso della Recherche sono, in effetti, il frutto dell’osservazione attenta, diuturna, infaticabile delle gelosia – e la gelosia è sempre legata e connessa indistricabilmente alla paura (del tradimento, dell’abbandono, della slealtà, della sfiducia, del dolore) e al dubbio, mai privi, tuttavia, della speranza che il tradimento non ci sia stato e che il dolore non ci sarà. Gli uomini che figurano come attori della Recherche sono solitamente gelosi delle loro donne (anche Charlus lo è delle sue passioni amorose ma in modo più intenso, spesso parossistico). La loro volontà di possesso va al di là del puro e semplice sentimento naturale che contraddistingue prima l’innamoramento e poi l’amore (come li descrive Stendhal, ad esempio) ma acquista caratteri di una vera e propria semiotica dell’esplorazione della fedeltà mancata, del tradimento segreto, della mancanza d’amore non tanto esibita quanto latente, coperta da un’apparenza che solo pochi segni rivelatori increspano e palesano. La gelosia esplora questi segni che tradiscono il tradimento, l’amore insicuro di sé cerca delle conferme alla fedeltà o al suo contrario ma, in ogni modo, cercano una conferma (essere traditi o essere amati con sicurezza) che tuttavia va rinnovata ogni volta, a ogni sguardo, a ogni carezza, a ogni abbraccio. Solo il possesso della persona amata può sancire il fatto che esso è vigente, presente, inconfutabile, innegabile ma questo deve avvenire ogni volta uguale al precedente, altrimenti subentra il dubbio e lo scoramento: M’ama? Non m’ama? è l’interrogazione più frequente (anche senza sfogliare l’opportuna e tradizionale margherita). Se m’ama, il suo volto non presenta le rughe dell’ipocrita commedia della negazione del sentimento invece dichiarato, lo sforzo violento fatto per negare l’infamia del voltafaccia segreto e non rivelabile, la necessità di sembrare fedele senza esserlo; se non m’ama, il suo corpo è indegno del mio amore totalizzante e assoluto ma non per questo cessa di essere amato. Per Proust, gli eroi della gelosia soffrono dolori più atroci del godimento che pure si costringono a esibire e a provocare per dimostrare di possedere il corpo dell’essere amato. In realtà, l’amore vissuto dal geloso è sofferenza mascherata da piacere – quello che lo regge è il desiderio del possesso assoluto, eterno, inflessibile sul corpo dell’Altro. Il dolore “geloso”, tuttavia, è fatto di uno studio attento della ragnatela di segni costituito dal corpo amato, dal suo volto meduseo, dalla sua enigmatica impenetrabilità alla verità. Così Swann o Charlus o il Narratore spiano i loro oggetti d’affezione per carpirne i segni della verità ma invano: essa sfugge sempre perché non c’è se non nella mente dell’amante. Qui Proust (che certo non poteva conoscerlo) sembra citare il giovane Marx dei Pariser Manuskripte del 1844:
«Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore, fiducia solo con fiducia ecc. Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, dev’essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità» [10].
Come spiega Deleuze, infatti, che quel testo marxiano certo conosceva non foss’altro per essere stato oggetto della geniale quanto indebita ripulsa di Louis Althusser [11], i segni dell’amore sono i segni della profondità che emergono alla superficie per essere interpretati sempre e comunque, ancora e ancora:
«La contraddizione dell’amore consiste in questo: i mezzi su cui contiamo per preservarci dalla gelosia sono gli stessi mezzi che alimentano questa gelosia, conferendole una specie di autonomia, d’indipendenza rispetto al nostro amore. La prima legge dell’amore è soggettiva: soggettivamente la gelosia è più profonda dell’amore, ne contiene la verità. E questo perché la gelosia va più lontano nel cogliere e nell’interpretare i segni. È la destinazione dell’amore, la sua finalità. Infatti è inevitabile che i segni di un essere amato si rivelino ingannevoli appena cerchiamo di “esplicarli”: rivolti a noi, applicati a noi, esprimono però dei mondi da cui siamo esclusi, e che l’amato non vuole, non può farci conoscere; non già per effetto di una cattiva volontà da parte sua, ma in ragione d’una contraddizione più profonda, connessa alla natura dell’amore e alla situazione generale dell’essere amato» [12].
I personaggi della Recherche sono quasi tutti impotenti a farsi amare e, anche quando i loro “oggetti d’affezione” vorrebbero farlo (è il caso di Albertine), si scontrano con il muro di ostinazione e di orgoglio della loro gelosia. Tutto questo perché l’amore è “un paese straniero” nel quale si naviga a vista verso un continente inesplorato. Gli uomini e le donne che si amano non sanno verso cosa li porterà il loro amore: sanno di essere sicuri dei propri sentimenti di passione ma non sanno se quelli degli esseri amati sono simili o maggiori dei loro e se dureranno nel tempo. L’amore è qualcosa di contraddittorio in sé e nessuna semiotica adeguata sarà capace di liberarlo da questo malinteso, da questo incantesimo. Proust non fa sconti né a Sodoma (il regno dell’amante – vedi Charlus) né a Gomorra (il luogo della donna amata e irresistibile – vedi quel che accade con la signorina Vinteuil e la sua petite phrase) – anzi a Gomorra riserva un primato che l’amore eterosessuale forse non conseguirà mai, quello dell’Assoluto che persiste nel tempo della passione (che sarebbe, invece, sempre presente, fragile, transeunte, delicato, imponderabile).
«I segni amorosi non sono, come quelli mondani, segni vuoti che fanno le veci di pensiero e azione. Sono segni ingannevoli che possono rivolgersi a noi solo nascondendo ciò che esprimono, cioè l’origine dei mondi sconosciuti, dei pensieri e delle azioni a noi ignoti da cui prendono senso. Non suscitano un’esaltazione nervosa superficiale, ma la sofferenza d’un approfondimento. Le menzogne dell’amato sono i geroglifici dell’amore. L’interprete dei segni amorosi è necessariamente interprete di menzogne. Il suo destino sta tutto nel motto: amare senza essere amato. Che cosa nasconde la menzogna nei segni amorosi? Tutti i segni ingannevoli emessi da una donna amata convergono verso il medesimo mondo segreto: il mondo di Gomorra, che, a sua volta, non dipende da questa o da quella donna (benché una donna posa incarnarlo meglio di un’altra), ma è la possibilità femminile per eccellenza, come un a priori svelato dalla gelosia. Il mondo espresso dalla donna amata è sempre un mondo che ci esclude, anche quando essa mostra di preferirci. […] Interpretiamo tutti i segni della donna amata; ma al termine di questo doloroso decifrare, urtiamo contro il segno di Gomorra, come contro l’espressione più profonda d’una realtà femminile originaria» [13].
Se Sodoma è l’amore agito, che spinge e chiede di essere realizzato, Gomorra è l’amore profondo, che non si può conoscere se a sprazzi, per epifanie di senso e che non si realizza mai se non nel sogno o nel ricordo, nel doloroso ritornare indietro delle aspirazioni a comprendere l’infinito che compone la realtà impalpabile (eppure sempre materiale!) della relazione amorosa.
3. Stile e racconto: il ritmo della Recherche
Il terzo regime di segni riguarda le immagini sensibili, le figure che richiamano e ritraggono il ricordo e lo ricompongono nel mondo presente come indici di un passato che non scompare.
La gioia che essi comunicano è inspiegabile – tutta la Recherche viene impiegata, alla fin fine, per spiegarla. Il sapore della madeleine richiama Combray, il rumore di un cucchiaio manovrato maldestramente da un anziano cameriere o il passaggio dell’acqua in una conduttura rimandano alla visione finale del Tempo ritrovato e al suo riscatto, i campanili di Martinville giustificano il ricordo della jeunes filles en fleur. Come scrive utilmente Giuseppe Grasso:
«Dalla madeleine inzuppata di tè al pavé del cortile di palazzo Guermantes c’è un lasso di più di 3000 pagine che non si può certo ritenere deserto ed in cui si dispiega una fitta rete di segnali, di motivi, di richiami memoriali, sicuramente meno vistosi del pasticcino ma che fanno lievitare la materia del romanzo. Bisogna qui ricordare i casi in cui la memoria moltiplica le sue “occasioni” per altri canali arricchendosi di ulteriori convergenze. Ai cinque sensi classici – ha sottolineato Geneviève Henrot [14] – si devono aggiungere altri due tipi di sensazioni corporee, forse più complesse: il corpo nei suoi muscoli (gesto, postura, movimento) e il corpo con la sua cute, sensore della temperatura e dell’umidità costitutive del clima atmosferico. Bisogna fare i conti, in breve, anche con una memoria cinetica e con una memoria metereologica o “climaterica” – come la chiamava lo stesso Proust. Anne Simon, superando abilmente il bipolarismo soggetto/oggetto, ha mostrato in che modo lo scrittore sostituisca alle nozioni di materia e di fatto grezzo l’incarnato delle relazioni che si intessono grazie a una serie di palpazioni del mondo, di emozioni sensibili, di solchi, di reti e di spessori qualitativi del vissuto. [15] Il che mette maggiormente in luce la dilatazione fenomenologica dell’opera o, per dirla con Merleau-Ponty, la sua vibrazione ontologica » [16].
Il fatto è che i segni “materiali” (come li chiama Proust e poi Deleuze sulla sua scia) sono segni reali, fatti di una sostanza non eludibile e non rinviabile ad altro. A differenza dei segni “mondani” fatti di apparenza e di futile rinvio reciproco di cui bisogna sfrondare le ridondanze per andare al nocciolo della loro comprensione (dove essa esiste e non è pura ostensione di forme sociali) o dei segni “amorosi” che, invece, vanno decrittati come un codice segreto (quello vigente nella città parallela di Gomorra, in fondo) e sono la dimensione profonda di una sofferenza che conduce al dolore dell’impossibilità di comprendere ciò che accade, i segni legati alle impressioni e alle “apparenze sensibili” sono concreti e rimandano a una dimensione di superficie (o apparentemente tale). I pasticcini a forma di conchiglia degustati con il tè sono agenti reali di un cambiamento nella soggettività di chi li mastica con piacere sottile e prezioso; i campanili di Martinville svettano verso il cielo e sono fatti della stessa pietra con cui sono stati costruiti fin dall’inizio; il selciato di Venezia continua a lastricare il suolo meraviglioso di una città letterariamente acuminata; i tre alberi di Hudimesnil sono sempre lì a permettere di ricordare la loro incomprensibile beauté. Come scrive Deleuze enunciando la sua teoria interpretativa del significato liminare della Recherche:
«Sta di fatto che le qualità sensibili o le impressioni, anche se bene interpretate, non sono ancora in se stesse segni sufficienti. Eppure, non si tratta più di segni vuoti, atti a darci un’esaltazione fittizia, come i segni mondani; né di segni mendaci che ci fanno soffrire, come i segni dell’amore, il cui vero senso ci prepara un dolore sempre più grande. Sono segni veritieri, che ci danno immediatamente una gioia straordinaria, segni oieni, affermativi, esultanti. Ma sono segni materiali; e non semplicemente a causa della loro origine sensibile. Ma, una volta svelato, il loro senso significa Combray, fanciulle, Venezia o Balbec. Non soltanto la loro origine, ma la loro spiegazione, il loro sviluppo restano materiali. Sentiamo perfettamente che quel Balbec, quella Venezia… non sorgono come il prodotto di un’associazione di idee, ma in persona e nella loro essenza. E tuttavia non siamo ancora in grado di comprendere in che consista questa essenza ideale, né perché proviamo tanta gioia. “Il sapore della madeleine mi aveva ricordato Combray. Ma, perché mai le immagini di Combray e di Venezia m’avevano dato, nell’un momento e nell’altro, una gioia simile a una certezza e sufficiente, senza altre prove, a rendermi indifferente la morte?”. Alla fine della Ricerca, l’interprete comprende ciò che gli era sfuggito nel caso della madeleine o anche dei campanili: il senso materiale non è nulla senza l’essenza ideale che esso incarna. L’errore sta nel credere che i geroglifici rappresentino “solamente oggetti materiali”. Ma quello che ora permette all’interprete di andare oltre, è il fatto che nel frattempo il problema dell’arte si è posto, e ha trovato una soluzione» [17].
La convergenza verso un punto centrale, forse non conclusivo ma generale, si è verificata. I segni mondani, amorosi e “materiali” sono tutti diretti verso una loro possibile giustificazione attraverso la loro appartenenza alla dimensione dell’arte. Si giustificano divenendo letteratura e partecipando della pratica ad essa congeniale della scrittura artistica. Il fatto è, però, che i segni descritti e analizzati con tanta cura da Deleuze, tuttavia, non sono soltanto “essenze” che conducono verso la Verità – sono tante verità che si incarnano in segni e, quindi, in scrittura, in racconto e in stile. Proust è – secondo la straordinaria espressione cara a Gérard Genette – essenzialmente un palinsesto nel quale ritrovare tutte le possibilità espressive della lingua:
«Sappiamo che per Proust non c’è “bello stile” senza metafora e che “soltanto la metafora può conferire allo stile una specie di eternità”. Non si tratta evidentemente per lui di una semplice esigenza formale, di un punto d’onore di ordine estetico come quelli che coltivano i difensori dello “style artiste” e più genericamente i dilettanti ingenui per i quali “la bellezza delle immagini” costituisce il valore supremo della scrittura letteraria. Secondo Proust lo stile è “problema non di tecnica ma di visione”, e la metafora è l’espressione privilegiata di una visione profonda: quella che va oltre le apparenze per accedere all’”essenza delle cose”. Se egli ripudia la “pretesa arte realista”, quella “letteratura di notazioni” che si accontenta di “darci delle cose un miserevole estratto di linee e di superfici”, è perché a suo parere questa letteratura ignora la vera realtà, che è quella delle essenze. […] La metafora, perciò, non è un ornamento, bensì lo strumento necessario per operare, attraverso lo stile, la reintegrazione della visione delle essenze: essa è l’equivalente stilistico dell’esperienza psicologica della memoria involontaria, la quale sola permette, accostando due sensazioni separate nel tempo, di coglierne l’ essenza comune attraverso il miracolo di un’analogia – con questo vantaggio della metafora sulla reminiscenza, che la reminiscenza è una contemplazione fuggevole dell’eternità, mentre la metafora gode della perpetuità dell’opera d’arte» [18].
La metafora, di conseguenza, diventa traccia da seguire per raggiungere l’obiettivo che la scrittura che l’assolutizza si prefigge e, di conseguenza, l’essenza cui fa riferimento preciso. Tanto più la metafora è precisa tanto più lo stile produrrà la traccia che si prefigge di costruire quale percorso privilegiato verso la Verità. L’obiettivo dello stile proustiano è, dunque, quello di trafiggere con puntuale precisione quelle situazioni che possono fungere da metafora di un’intera concezione del mondo sintetizzata dai segni che la privilegiano. Lo stile risulta, allora, essere simile ad una rete intrecciata e lanciata dai segni che vogliono racchiudere dentro di essa la possibile verità del loro rapporto costitutivo. Senza lo stile non è possibile dare valore espressivo ai segni; senza i segni, lo stile è vuota esercitazione retorica, pura espressività senza contenuto. Lo stile è costruito a partire dalle sue figure, tuttavia, e dal loro uso lo stile che ne deriva si sostanzia come progetto di comprensione della realtà (letteraria) che gli si raddensa intorno. Come Genette scriverà successivamente in Figure III, la metafora insegue la metonimia nella sua capacità di insinuarsi nel cuore stesso del sistema di segni cui esse fanno riferimento:
«Le trasposizioni metonimiche restano però abbastanza rare nell’opera di Proust, e soprattutto nessuna di esse è effettivamente recepita come tale dal lettore: il tintinnio, indubbiamente, è ovale soltanto perché lo è la campanella, ma qui come in altri casi la spiegazione non comporta la comprensione: qualunque sia la sua origine, il predicato ovale e dorato si basa su tintinnio, e, mediante una confusione quasi inevitabile, tale qualificazione viene interpretata non come un transfert, ma come una “sinestesia”: lo “slittamento” metonimico non è solo “camuffato”, ma addirittura trasformato in predicazione metaforica. Così, invece di essere antagoniste e incompatibili, metafora e metonimia si sostengono e s’interpretano, e dare alla seconda il posto che le spetta non consisterà nel compilare una lista concorrente in antagonismo a quella delle metafore, ma piuttosto nel mostrare la presenza e l’azione delle relazioni di “coesistenza” proprio all’interno del rapporto d’analogia: il ruolo della metonimia nella metafora» [19].
Allora: metafora e metonimia come figure del racconto scandiscono il progresso del narrato così come i segni ridefiniscono il progressus verso la verità attraverso la ricerca delle essenze. Tale ricerca è fatta di rappresentazioni mediante figure. Senza di esse, non si sarebbe potuto andare avanti nel progetto che il Narratore stabilisce di realizzare nel momento stesso in cui si rappresenta la verità incerta delle rassomiglianze (come si è visto nella precedente citazione de Il Tempo ritrovato): La ricerca dei segni che scandiscono i diversi passaggi attraverso i campi metaforico-metonimici della vita (individuale e sociale, tutti e due nello stesso tempo) è scandita dalla loro perimetrazione figurale. Per questo motivo, stile e ritmo della narrazione si ritrovano nel gioco vertiginoso e infinito dei rimandi tra immagine e narrazione. Cogliere questo snodo è il frutto della volontà di lettura del testo perseguita da Deleuze sulla base della convinzione che nella Recherche non si tratta tanto di capire la natura dei fenomeni prodotti dalla scrittura quanto di organizzarli come catene di segni che conducono verso il dischiudersi di una Verità possibile e, nello stesso tempo, assoluta, ideale, de-finita. Tale organizzazione, tuttavia, si trova ad essere scandita seguendo le indicazioni che il suo ritmo interno, lo stile che la designa, le permette in maniera assoluta. In Proust, ritmo della frase e stile che lo contraddistingue fanno tutt’uno. Si tratta di un’osservazione molto celebre (e celebrata) di Leo Spitzer che pur tuttavia vale la pena di riprendere e di ripetere:
«La sintassi di Proust. Che obbedisce sempre a un rigido modello prestabilito, sa d’altra parte spiegarsi e adattarsi al contenuto da rappresentare, sino a tentare per via sintattica una forma di pittura verbale. Il suo è ancora l’antico periodo latino e francese, ma ampliato e reso più docile e flessibile da un elemento impressionistico come la onomatopea sintattica (“je tourne la loi, donc je la respecte” è la legge, secondo Thibaudet, dell’ottimo scrittore francese). Il periodo, chiuso e serrato come in una morsa, dà un’immagine (un’immagine “sintattica”, come si parla di “immagini verbali”) della complessità di questa visione del mondo, e rappresenta un “meccanismo del pensiero”, a cui non si può sfuggire. Lo scrittore, che tanto credito dà alla memoria, costruisce delle frasi le quali chiedono un impegno memoriale da parte di chi legge, e propongono una sintesi che ogni lettore dovrà faticosamente analizzare. Ma questo meccanismo linguistico, nel quale c’è bisogno di un Cicerone (il critico stilistico!) per non perdersi, corrisponde a quel meccanismo spirituale a cui Proust crede fermamente (“il est inutile d’observer les moeurs puisqu’on peut les déduire des lois psychologiques”). Non è forse interamente esatto ripetere, con Crémieux, che Proust abbia costruito ogni frase secondo un nuovo schema, per paura di cadere persino nel “cliché” creato da lui medesimo (“Pour chaque phrase, il crée un modèle nouveau sur lequel il renonce à calquer une seconde phrase”). Nonostante le infinite e immaginose sfumature, uno schema sintattico proustiano esiste, e non è difficile individuarlo. L’infinità delle variazioni è continuamente limitata dall’eguaglianza e compattezza del mondo, e soprattutto dalla costanza dell’organismo umano» [20].
In quell’immensa opera di descrizione del mondo che è la Recherche, allora, il ritmo ritrova il suo giro ogni volta che i segni emergono e si adeguano al desiderio proustiano di fare dello stile la regola rappresentativa del suo essere capacità di conoscenza della natura profonda della vita. Stile e vita si inseguono, si intrecciano e si mettono a correre su due binari paralleli che non si incontreranno mai. Ma nel momento in cui i segni del reale si fanno scansione ritmica delle frasi che compongono il racconto del mondo in cui il Narratore ha vissuto, lo stile giunge là dove la pura e semplice scansione degli eventi memoriali (involontari o meno che siano) non è riuscita ad arrivare – nel cuore del rapporto tra felicità e vita ovvero nel trionfo della conoscenza come arte e dell’arte come Verità finale sufficiente a giustificare, a dare senso totale alla Vita.