[ Intervista a cura di Carlo Pagliai ]
Vincenzo Fresa, scrittore, poeta e sceneggiatore cinematografico, ha pubblicato da poco un romanzo, “La sindrome di Saul” (Gruppo editoriale l’Espresso, 2011), che è innanzi tutto una grande e policroma costruzione narrativa in cui si mescolano l’ambiguità del simbolico e la viva concretezza della Storia, col sostegno di una prosa plastica e nervosa, continuamente tesa a rilevare e a raccontare le pieghe misteriose della coscienza umana e le ineffabili e macchinose angosce del nostro tempo.
Domanda. Qual è, oggi, la situazione del romanzo in Italia ?
Risposta. Si osserva, già da tempo, un declino generalizzato del romanzo - in termini di qualità, naturalmente, non dal punto di vista della quantità - in tutta l’Europa. Esso tocca perfino la Francia che, nel campo della narrativa, contendeva il primato, indiscusso e indiscutibile, alla Russia. Dopo, infatti, Mauriac, Bernanos, Céline, Gide, Malraux, in quel Paese, non si è prodotto, riguardo al romanzo, quasi nulla di veramente significativo. Per quanto concerne, l’Italia, poi, lo “stato di salute” del romanzo sempre, ad ogni modo, in relazione alla qualità ( la quantità è strabocchevole), direi che è addirittura pessimo. Scomparsi i grandi narratori della prima metà del Novecento, tra i quali- il maggiore- Luigi Pirandello (grande narratore ma pessimo scrittore, a giudizio di Attilio Momigliano), in questo ambito, l’orizzonte è andato via via restringendosi fino a immeschinirsi nei fumi dello sperimentalismo, nelle angustie dell’erotismo fine a se stesso e nella evanescenza di un sentimentalismo povero di sentimento. Tra gli anni '50-'60, la discesa verso quota zero (o sotto zero) ha avuto come una sosta rappresentata dal neo-realismo ( trasmigrato dal Cinema nella Letteratura). La narrativa neorealista ha riscosso, a suo tempo, il pieno consenso di Giacomo De Benedetti. Questi, rifacendosi alla tesi di Michel Butor, secondo il quale un romanzo «è una risposta ad una situazione di coscienza», conclude che la produzione neorealista, nelle sue diverse variabili, rifletta, appunto, una coscienza attiva e operante, nei suoi maggiori esponenti, e si presenta, adeguata al rinnovato clima, morale e socio-culturale della società nazionale. Quella del neo-realismo fu una stagione breve e, già prima di esaurirsi, emergevano gli organici limiti di fondo e, soprattutto, i vizi di una strumentalizzazione ideologica sempre più accentuata, che oscurava, o trascurava, le finalità primarie del romanzo, il quale è, e deve essere, anzitutto, opera di poesia e testimonianza, non datata, di umanità. Ormai dei quasi mitizzati Cassola, dei Pratolini, ecc. ci si ricorda solo per ridimensionarli, se non azzerarli. In fondo, di tutta la narrativa neorealista rimane valida e attuale l’opera di Cesare Pavese - il “cronista”, sommesso e malinconico, dell’eterno grigio quotidiano dell’esistenza - e di Italo Calvino, un neorealista sui generis, magico e surreale cantore di una realtà parallela. Indubbiamente al neo-relasmo vanno ascritti altri narratori degni, anche oggi, di essere rivisitati e apprezzati. Ma cito Cesare Pavese e Italo Calvino perché essi, meglio degli altri, hanno saputo tutelare la propria libertà di espressione, senza lasciarsi soffocare nella trappola del genere. La crisi del romanzo in Italia ( ma non solo) ha una poligenesi patologica, la quale si riassume in un fenomeno imperversante quasi in ogni campo dei rapporti socio-culturali. Esso è il cosiddetto minimalismo che, specialmente in letteratura, opera in conflitto non tanto e non solo con la tradizione ( il che non sarebbe un gran male), ma anche con tutto ciò che abbia un senso in termini di responsabilità artistica e di culto dei valori di riferimento. Ma che cosa è, in ultima analisi, il minimalismo? Un’ anacronistica imitazione di Joyce di Proust, sotto le mentite spoglie di una nuova corrente letteraria di basso profilo? Una specie di neo-alessandrinismo? Una scelta consapevole e intenzionale che privilegia gli aspetti volatili, la minutaglia della realtà in omaggio alla dottrina da ombrellone balneare dell’usa e getta? Per me è, semplicemente, un’ abdicazione alla serietà della “scrittura” e una resa alla sagra dell’effimero.
Se è vero che nel presente si pongono le premesse del futuro, a mio parere, da noi, il romanzo ha un futuro molto incerto. Del resto, non so se per una sorta di compiacimento masochistico o sulla base di una obiettiva osservazione, ci si domanda se la lingua italiana stessa abbia un futuro.
Domanda. Quale è, secondo lei, il ruolo di uno scrittore nella società? Quali sono o dovrebbero essere le sue responsabilità politiche?
Risposta. Secondo me la cultura umanistica, per la sua peculiare macroscopicità e possibilità di accesso all’individuo e alla collettività, più delle altre sfere dell’attività intellettuale- scienze comprese- rappresenta lo specchio dei valori, o dei disvalori, di una società. Uno scrittore, perciò, si propone, direttamente o indirettamente, come punto di riferimento culturale, morale, umano e, naturalmente, politico Checché se ne dica, noi viviamo immersi, addirittura sommersi nella politica e, purtroppo, a volte, anche nel lerciume di essa. La stessa “antipolitica” è, in effetti, un più o meno meditato atteggiamento politico. Uno scrittore coglie, o almeno dovrebbe cogliere, gli aspetti, i problemi e le problematiche della società e farne un’analisi, quanto più obiettiva possibile nell’ ottica politica ma salvaguardando, contemporaneamente, la propria libertà e soggettività di coscienza e di giudizio. Se, poi, lo scrittore è pure un autore di romanzi, egli dovrebbe proporre, in termini artistici e poetici, la sua personale visione del mondo e della complessa e multiforme realtà di cui è interprete e testimone.
Domanda. Quando è iniziata la sua avventura letteraria?
Risposta. Tanti decenni fa. Prese avvio, quando avevo diciotto anni, da una serie di soggetti cinematografici e sceneggiature, che realizzai per la Mondial Film, una casa editrice specializzata, collegata con la Casa hollywoodiana Darryl F. Zanuck. Da allora è proseguita, anche se con non grande fortuna, tra specifica attività poetica (vinsi il terzo premio Vallombrosa), saggistica, storiografia e, soprattutto, narrativa.
Domanda. Secondo il suo parere, quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla narrativa?
Risposta. Piaccia o non piaccia, critica e critici svolgono un ruolo essenziale rispetto alla narrativa nella valutazione, nella valorizzazione e nella promozione di un romanzo. Il critico, però, proprio per la delicatezza e la decisiva importanza del suo ruolo, dovrebbe essere obiettivo, giusto, “onesto”, libero da condizionamenti e consapevole che la fortuna di un romanzo di un certo livello dipende, per la gran parte, dalla posizione assunta dalla critica.
Domanda. Quando affronta la scrittura, crede di più nel “magico” apparire dell’ ispirazione o nello studio e nel rigore della disciplina?
Risposta. Da sempre, poiché voglio scrivere solo quello che ritengo valido, prima per me e poi per gli altri, l’ispirazione- che io dentro di me leggo e rileggo criticamente- costituisce una premessa ineludibile. Ma un’ispirazione, anche se ben delineata e convincente, per valere effettivamente, ha bisogno di essere tradotta in fatto creativo e, a tal fine, sono necessari lo studio e il rigore della disciplina. Scrivere è impegno intellettuale totale, fatica, a volte, anche tormento!