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Intonacato

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 21/01/2019 10:55:51

INTONACATO

 

Ero un seminarista gnucco e un po’ assonnato. Il futuro prete meno in gamba della famiglia. Alla spedizione di Epaminonda preferivo le note di una scassata radiolina che non so come il contrabbando ci aveva rifilato. Non riuscivo a costringere la mia mente a mandare a memoria gli aoristi e i duali perché vi si insinuavano altre idee.

Perdevo tempo e sciupavo energie. Sembrava che mi mancasse qualcosa, non so che cosa.

I miei professori si erano in parte abituati alla mia aria da disarmato bambino e tolleravano il mio essere smemorato. Stagnavo in un torpore grigio di cui ero semi conscio o assai cosciente, ma che non mi riusciva di abbandonare. La navicella del mio ingegno era una bagnarola piena di falli. Ero timido, credulone, infantile e impacciato.

Mio padre era un uomo debole, dominato dalla figura di mia madre. Avevo davanti il modello dei miei fratelli e di mio zio. Dunque, prete anch’io.

Mi intimorivano le ragazze. Le subivo del tutto, arrossivo appena ne incontravo qualcuna che mi guardava con insistenza.

Le mie sorelle si erano sposate presto e poi erano così goffe e casalinghe che non mi avevano mai fatto grande effetto, se non quello di due laboriose zie. Le vedevo sempre indaffarate con i bambini al collo, i capelli unti e i grembiali macchiati. Le compiangevo un po’ e rendevo grazie a Dio per non essere nato donna.

Cacciavo il pensiero dell’altro sesso di cui non volevo sapere niente, anche se le nostre discipline in qualcosa contemplavano l’argomento.

Ogni giorno era diverso e ogni diversità costava fatica perché dovevo imparare cose nuove, sempre troppe per me che tendevo a dimenticare. Subivo con insofferenza l’incapacità di non riuscire ad approfondire ciò che sfioravo soltanto con la mia svigorita mente.

Mi esaurivo al pensiero di poco e mi ritrovavo a canticchiare il Rosario quando ero partito con S.Agostino e la Città di Dio.

La mia era una cittadella di pandispagna con molti usci chiusi e qualche guardia svizzera addormentata qua e là.

Scioglievo gli affanni in qualche facile canzonetta che mi saliva alle labbra e in qualche goccio di nettare di Bacco: mi rilassavano gli umori grigi estromettendo le sensazioni dolorose, gli scoraggiamenti.

Ma poi piangevo anche. Quando proprio non ce la facevo più, quando era umanamente indispensabile vomitare gli accumuli. Il pianto, che veniva a singhiozzi laceranti, scuoteva tutto il mio tronco, le orecchie diventavano rosse. Piangevo in disparte, seduto sul mio letto monacale, spargendo le lacrime sulla tomaia delle scarpe.. 

In seminario dividevo la camera con altri due . Uno era grasso, ronfava durante i sonni notturni, ci faceva ridere quando sbarrava gli occhioni verdi e sudava cimentandosi nella pallavolo. Aveva una naturale, incredibile predisposizione per le lingue.

L’altro aveva una faccia da bolscevico, incuteva un oscuro timore ma in fondo era solo un timido. Amava Pascal , di cui spesso citava frasi e meditazioni e meditava a lungo egli stesso nelle ore di ricreazione e di refezione.

Il professore di storia lo chiamava Vanvitelli, anche se il suo nome era Savelli, ma quello non perdeva occasione per far riferimenti culturali.

Col mio cognome, Contarini, si era sbizzarrito fin troppo tanto che aveva tirato fuori la storia della Serenissima, dei Dogi e di tutte le guardie e i bargelli. Ricordo l’imbarazzo che si impossessò di me il giorno in cui mi vergognai del mio cognome storico.

Il prete che ci insegnava latino e greco era pesante come il Te Deum. Voleva inculcarci il gusto per la metrica e finiva per trascurare la sintassi. L’avevo battezzato Dattilodattilo.

Una volta mi rifilò un bruttissimo voto nel compito di greco: una versione di Tucidide che riguardava la battaglia di Salamina e che non era neppure troppo difficile dato che avrei potuto aiutarmi con le mie conoscenze storiche. In verità quella mattina avevo un pesante raffreddore e avrei dovuto rimanere a letto, ma non me la sentii di starmene da solo in camera e preferii affrontare le lettere ricurve e la silenziosa atmosfera della classe piuttosto che rivoltarmi tra le lenzuola e aspettare le pozioni di don Matteo.

Don Matteo si proclamava erborista ma di erbe ne capiva relativamente. Propinava certi intrugli che avrebbero sconcertato un morto: non so, una ricetta a base di nasturzi e pratoline lesse. Per i raffreddori preparava decotti sulla cui efficacia c’era molto da dubitare. Io ero scettico: lui non era riuscito a curarsi quella sua sordità rinogena e faceva tanto il saccente..

Quel votaccio mi rimase ficcato in gola come un chiodo. Il votaccio e lo sguardo sprezzante dell’insegnante di greco.

Come Dattilodattilo, otto giorni dopo la prova, entrò in classe con la pila dei fogli protocollo avvolti nella meticolosa fascetta, mi lanciò uno sguardo che non lasciava dubbi.

Certo meno di quattro, pensai. Ah se me ne fossi rimasto a dormire!! Troppo tardi, Signore mio! Aiutami a non arrossire affinché io beva con minor pena dal tuo amaro calice.

Arrossii invece e maledettamente perché l’orgoglio mio non era ancora stato debellato, o forse era solo la mia oscillante autostima, e così soddisfeci quella che mi sembrò l’intima cattiveria del mio aguzzino: “Malissimo, Contarini, ma come hai potuto inventarti una simile asinata?!” Non gli dissi del mio stato di salute. Inghiottii l’umiliazione, le lacrime, tutto.

Certo dovevo rimediare. Il compagno con la faccia da bolscevico si offrì di ripassare il greco con me. Gliene fui grato, soprattutto perché mi impedì di cadere nel tedio che quelle regole, ahimè, mi procuravano.

Con Sofocle andavo forte. Forse mi aveva impressionato L’Edipo. Il bambino Edipo, reso zoppo dalle corde che lo avevano legato al Citerone e poi libero perché destinato a compiere azioni tremende, mi martellava nella testa, mi trasmetteva un’emozione strana.

Plutarco, invece, mi ispirava antipatia. I suoi parallelismi non mi risultavano sempre chiari. Tribolavo con le traduzioni, confondevo gli episodi delle varie battaglie, simpatizzavo per i nemici dei Greci.

Che voglia matta mi prendeva di fare le capriole, di cogliere il richiamo della spensieratezza, irresistibile con l’arrivo della primavera.

E invece, no: dovevo stare lì, paralizzato e condannato al tavolino. Costretto dalla mia stessa coscienza che pure doveva tacere.

Dal sonno soltanto veniva la quiete.

I ritorni in famiglia non mi risollevavano dal mio stato. Spesso anzi mi deprimevano e mi avvilivano talmente da farmi desiderare il collegio. Mia madre vi contribuiva. Mi rivolgeva di rado la parola e soprattutto per commissionarmi qualche faccenda. O c’era da spaccar la legna per il fuoco e d’inverno, quando la bora mi investiva e mi entrava nelle ossa come fossi stato senza abiti, l’incarico risultava quasi insopportabile, oppure si doveva governare le bestie, cambiare la paglia al maiale, fare la traccia dopo le nevicate fitte.

Io mi impaludavo in abiti dismessi e andavo nel cortile ad eseguire. Andavo anche a far la spesa con i soldi contati. Compravo soprattutto patate perché la provvista in dispensa finiva presto.

A Natale l’unica cosa che mi divertiva era l’allestimento del presepio. Mi ci aveva abituato lo zio scorbutico .

Quando ero bambino, una settimana prima del venticinque dicembre, lo zio mi conduceva in un boschetto a raccogliere il muschio. Con un coltello ricurvo staccava quello più ostinato dai tronchi. Io ne raccoglievo qua e là e con tutto quello che avevamo trovato tornavamo a casa.

Il giorno dopo mi spingeva in cantina e sceglieva i pezzi più belli dalla catasta di legna. I pezzi venivano posti sotto la cappa di un camino che per l'occasione non veniva utilizzato. Li disponeva in modo pittoresco formando una sorta di teatro a scalinate. Vi sistemava sopra il muschio e le statuine in terracotta. La capanna veniva realizzata intrecciando delle canne che si facevano essiccare ogni anno nel periodo estivo.

La parte interna del camino ricoperta di fuliggine fungeva da nera notte. Con gli occhi del bambino trovavo meraviglioso quel presepe.

Lo zio scorbutico mi aveva insegnato a dire le preghiere.

Lui era entrato in seminario quando era rimasto orfano.

Lo chiamavano scorbutico mia madre e le mie sorelle ma a me era simpatico e gli volevo bene.

Era magro e sotto la tonaca nera, spesso sporca di fango sull’orlo, sembrava più lungo e curvo.

Veniva a casa nostra con un lambrettone bianco, pure quello inzaccherato per via delle pozzanghere. Carlino, mio fratello, gli chiedeva le caramelle e lui, che poi non era così scorbutico, le aveva sempre in quella tasca fonda e nascosta della sua veste nera.

Mia madre gli faceva la polenta col ragù e quelle erano occasioni speciali. Mio padre, alla fine del pranzo, gli versava un po’ di vin santo nel bicchiere e diceva: “Questo è meglio di quello della chiesa”.

E lo zio diceva che era buono anche quello della chiesa.

Credo che sia stato lo zio a suggerire a Carlino e a Leo di entrare in seminario. Mia madre, ogni tanto, lo chiamava per nome, Sebastiano, e a me faceva uno strano piacere perché suor Matilde ci aveva raccontato la storia del martire Sebastiano e io di notte, vedevo e pensavo al corpo nudo del giovane Sebastiano rigato dal sangue dei dardi.

Mia madre, chiamando lo zio col nome di Sebastiano, lo innalzava ai miei occhi.

A vent’anni io ero ancora senza visuali critiche, senza quadri generali sulla vita e su tutto quello che si deve sapere.

Ero molle e ripiegato. Dicevo sì sì e no no. Nel profondo mi sentivo un indegno, fragile discepolo di Cristo di cui ci insegnavano a seguire l’esempio di amore totale.

Il martirio dei Santi, di Santo Stefano, San Sebastiano, Sant’Agnese e altri, rappresentava per me un sacrificio estremo che non avrei mai potuto imitare.

Se fossi vissuto ai tempi di Diocleziano, io credo che sarei fuggito, avrei sacrificato agli dei, poi avrei chiesto perdono a Dio. Non sarei stato nemmeno in grado di offrire la mia vita per salvare quella di altri come Massimiliano Kolbe.

Sarei stato debole, vigliacco. Perché se non ero capace di amare la vita come avrei dovuto , non avevo neppure il coraggio di lasciarla volontariamente per santa coerenza.

Adesso penso che devo ringraziare Dio per non avermi mai posto di fronte a prove del genere, per non avermi mai domandato , almeno fino ad ora, di dimostrargli con la vita o con la morte da che parte stavo e sto.


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