NATALIA E AURORA
Un ex casa cantoniera in curva, a guida della strada, chiome fitte di castagni irrorano verde nella calura estiva. Sotto il porticato sul retro si può sedere per godersi il fresco; il paesaggio collinare ristora.
Nella radura i ragazzi hanno messo le tende degli indiani che sono sempre abbandonate perché è piaciuto soltanto costruirle.
C’è sereno e quiete intorno: si possono ricomporre i ricordi, trovare le relazioni.
Alla gente piace l’ambiente familiare e a te la sensazione di servire da padrona.
Non hai dimenticato la lezione dei classici.
A tua madre, che ti immaginava nel condominio di città, hai detto che preferisci la campagna.
Lei non sopporta di vederti sempre in pantaloni con le scarpe impolverate e, quando viene a farti visita, le leggi in viso il rifiuto per il tuo essere dimesso e l’accusa a tuo marito di “averti ridotta così”.
La Ricerca ti piaceva beninteso, ma questo è un lavoro più appagante perché, invece delle colture in laboratorio, a volte curi microcosmi familiari in crisi cui cerchi di apportare consigli e solidarietà.
Certo, avresti potuto ambire a un partito migliore, con la tua bellezza e la consistenza economica dei tuoi, e che cosa tu ci abbia trovato in quei cinquantacinque chili e un pugno di rughe tua madre proprio non lo sa, soprattutto perché la vocazione alla pittura non ha mai sopperito alle esigenze di una famiglia.
C’è voluta la tua disponibilità a sgobbare e l’aiuto economico di tuo padre, naturalmente.
A vent’anni avevi tanti sogni: carriera, congressi e soggiorni in America. Eri brava a dragare il fondo dei libri, masticavi dispense di biologia a sorsi di caffè nelle ore notturne .
Ti sei presa la specialità oltre alla laurea.
Credevi di aver dato il massimo di te stessa e di suscitare stati di venerazione ma, improvvisamente, ti sei sentita noiosa.
I tuoi discorsi erano ordinati allineamenti di parole senza sapore. Gli esperimenti, ripetitivi maneggi di liquidi in provetta, lontani da ipotesi reali di scoperta.
Un inappagato senso di vita continuava ad assillarti e così sei rimasta abbagliata dallo shock visivo delle sue tele.
Nella simbologia delle forme e dei colori i messaggi ritrovati ti svelavano a te stessa. Facce della realtà in lucide metafore.
Accedevi al tempio sacro dell’arte, assistevi alle trasformazioni della vita. Nell’infinito gioco degli specchi eri corpo sontuoso, leggiadra figura in abito a fiori, donna ammiccante a uno sconosciuto, ragazza di buona famiglia seduta con le amiche attorno al tavolo del tè, madre generosa col turgido seno per il puttino in fasce, signora in grigio al funerale di un parente, vecchia grinzosa dallo sguardo rassegnato.
Ti fondevi con i campi di granoturco e di erba medica, raccoglievi nei catini il pesce rovesciato sul bancone, vendevi al mercato della frutta i meloni e le fragole, le arance e i limoni.
Sotto l’ex casa cantoniera, trasformata in ristorante dal tuo gusto educato al rispetto dei volumi, la scarpata digrada in spiazzi verso il torrente. Qui c’è il recinto delle capre, là gli orti di verdure fresche, più sotto, non lontano dall’acqua, i salici fruscianti in morbida complicità.
Per farti visita, Aurora ha scelto una lunga trafila di autobus. Così osserverà dal finestrino i papaveri rossi tra l’oro delle spighe e le aureole dei pioppi in slarghi di luce.
Da ragazze Natalia e Aurora lasciavano le biciclette per il fiume e i boschi. Pugni di more nei rovi e bastoncini di liquirizia lungo l’argine.
Sui fogli dell’album di Aurora c’erano campi di granoturco e di erba medica, soli di stagione, piogge violente e nevicate, radici che succhiavano sangue da una terra prodiga e feroce.
Aurora di potenti fantasie.
Dopo la morte del padre, aveva continuato ad abitare nella casa sotto l’argine con la madre e una zia.
Con te ha condiviso sogni, confidenze e, a volte, rituali contadini.
Terminati gli studi in Accademia, ha preso a organizzare mostre.
E’ stata lei a presentarti quei cinquantacinque chili.
Due occhi baluginanti sotto un cappello di paglia chiara e un’espressione scanzonata.
Anche lei lo giudicava irresistibile ma ti ha detto generosa che è la complementarietà e non l’affinità a cementare i rapporti.
Le dirai che tieni tra le quattro mura il tuo segreto: lui sperpera al gioco e dissipa la sua arte, coltiva antitesi e bisogno di sentirsi sull’orlo dell’abisso per ritrovare il gusto della normalità.
Le dirai che sei diventata scrigno, brava a nascondere, e hai ripreso ad aspettare che tutto maturi per trasformarsi, come le colture di laboratorio.
Aurora è senza fiato quando oltrepassa il cancello. Vuol subito fare un giro lungo la carraia.
“ Natalia, hai potato la pianta di glicine? Vedi come si arrampica disordinata sul cancello!”
Sedute sotto la tettoia, all’ombra sul retro della casa, tu hai già riannodato i ricordi.
Seduce la ritrovata freschezza adolescente: le rughe di colpo sono cancellate dalla fronte.
“Conservi ancora il ritratto che ti feci ?”chiede Aurora.
“Io ho imparato a conoscere il mondo dalla tua tavolozza” le rispondi tu. Intanto Sergio, tra i soffioni, studia la campitura di una tela.
A sera i ragazzi reclamano la cena.
Sul tavolo di rovere, con le tovagliette all’americana, hai servito zucchine fritte con la farina di ceci, caprini e affettati.
Osservi i lavori di ristrutturazione della casa, non ancora terminati, e speri che l’estate non faccia marcia indietro.
Sei con Aurora nella dispensa dove sono appesi i salami, la costa sotto sale, il prosciutto e le grasse vesciche piene di strutto.
“Vedi? Ho imparato da tua madre!” le dici.
Aurora sorride e scuote la lunga treccia nera; poi si aggiusta i calzini che sono scivolati in giù.
Non si è sposata anche se di uomini ne ha incontrato.
Gli occhi baluginanti s’insinuano improvvisi e saettano. Accennano un lieve sorriso, ma s’intuisce che il pensiero è lontano.
Aurora vorrebbe farsi piccola: non vuole prendersi l’intimità degli altri. “Siediti, si mangia”. Tu la tratti con l’affetto dell’infanzia.
Sergio, invece, sembra quasi ostile , chiuso nei suoi pensieri rivali.
Aurora annuncia che andrà in India.
Odori e colori le lanciano richiami.
Poserà la treccia nera sul sari e camminerà lungo il Gange nella terra limacciosa e putrescente che sa di cadaveri e di povero cibo.
Stanotte dormirà nella stanza con le travi, ascolterà il verso dei grilli e sognerà due biciclette appoggiate all’argine del fiume.
Domani tu darai l’erba alle capre, spruzzerai l’acqua sull’impiantito e poterai la pianta di glicine.
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