Non riusciva ad arrendersi di fronte all’ennesimo insuccesso, allorché si vide costretto a metter giù la penna, colto da una improvvisa paralisi, per inerzia, del pensiero e della parola.
Riprese a scrivere, ma dovette arrestarsi di lì a poco e allora gli venne di guardarsi indietro, lui che erano anni che cercava di dar vita a un’opera, all’opera letteraria con la maiuscola, quella che avrebbe dovuto segnare la sua vita di uomo e di artista e, nei suoi voti, anche quella della sua epoca.
Eppure, in tanto tempo in cui si era accinto ad essa, all’opera, non era mai andato più in là di qualche stentato moncone di libro, qualche misero embrione di romanzo, che non era mai riuscito a divenire adulto, una compiuta realtà. Giacomo Fondi aveva ora cinquantott’anni e più tempo passava e più si convinceva che il suo parto poetico, il capolavoro che avrebbe dovuto uscire dalle sue mani sarebbe rimasto una pia intenzione, che mai si sarebbe concretizzata, se non nel libro dei sogni.
Ciononostante ancora non gettava la spugna e s’ostinava al cimento narrativo. La storia era cominciata in gioventù, con le prime esperienze artistiche; forzosamente, aveva condotto i suoi studi giuridici, pervenendo ad addottorarsi e avviandosi alla professione di collaboratore presso uno studio legale, senza mai brillare troppo in quella sua carriera forense, ma restando confinato in una specie di aurea mediocritas, così, tanto per sbarcare il lunario alla men peggio ed avere una posizione sociale decente. Aveva di suo la particolarità di sentirsi intimamente un greco, e se le circostanze, che lo legavano alle sue origini nolane, in quel comune di Saviano, dove era nato e cresciuto ed aveva messo su famiglia (una moglie e due cadetti, ormai grandi) gliene avessero dato l’agio, volentieri, da italiano qual era, vi si sarebbe cambiato con tanto di documenti.
Il vero pallino dell’avvocato Fondi, il suo sogno, in sostanza nel cassetto era, però la letteratura fin dal tempo della scuola, abituato com’era allora ad imitare gli autori che sui testi scolastici venivano tanto decantati e che pure gli facevano sudare sette camicie per studiarli. Non che fosse un esaltato, un fanatico della genialità; il suo interesse, tutt’altro non era il successo, quanto piuttosto la dedizione: egli teneva al culto delle lettere, che erano il suo idolo, non importa poi quanto potessero contare i suoi lavori.
E ci si era messo per quarant’anni a confidare nella grande opera che sarebbe dovuta maturare dal suo cervello. Perciò, appena gli era permesso, si ritirava nel suo studio di casa e cominciava a cesellare il suo capolavoro, che attendeva da allora di venire alla luce.
Purtroppo l’attesa non era stata premiata, ma ancor ora Giacomo Fondi non aveva smarrito la speranza. Fu così che egli si colse, nel suo guardare indietro, a riprendere in mano tutti quei suoi tentativi letterari del passato e riesaminare tutto quanto aveva scritto. Lo trovò piuttosto scialbo e insignificante, quel suo passato creativo, cosicché ne rimase non poco amareggiato.
Ma poi si disse che, in fin dei conti, il tempo non l’aveva buttato, se era vero che aveva scritto tanto, pur senza addivenire a nulla di concreto, in fondo nemmeno un libro pubblicato. Data la sua età, disperando ormai del suo futuro letterario, ci si soffermò a riflettere sopra su quel suo strano destino artistico. E fu preso da un’improvvisa folgorazione: decise di darci un taglio con quella storia e stabilì che tutto sommato egli il capolavoro l’aveva già composto ed era nelle pagine incompiute che aveva stilate in tanti anni, quei tanti aborti di romanzo che ogni volta che la vena e il tempo a sua disposizione glielo consentivano, egli aveva buttati giù.
Come spinto da una mano invisibile, maturò la sua conseguenziale risoluzione: avrebbe raccolto insieme quegli abbozzi di scrittura, quei monconi di romanzo, tutti diversi tra loro per sfondo e stile e spesso incongruenti, perché frutto di esperimenti condotti per tante divergenti, quando non opposte direzioni compositive. Ne avrebbe ricavato un libro, il suo libro, quello che attendeva da anni, ora lì inaspettatamente in mano sua e che non aveva che da dare alle stampe. “Sarà certo“ si disse convinto “ il testamento letterario e spirituale della mia epoca” , e non scrisse più.
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