Weimar fu una stagione di grande vitalismo politico e culturale ma anche di tensioni e difficoltà di ordine sociale ed economico che finirono per produrre molte delle fratture esiziali alla sua sopravvivenza.
Questa coraggiosa fabbrica dell’alternativa sociale, nata dal dramma della guerra, ebbe un cammino affatto agevole e fece non poca fatica a sfuggire ai bassi tiri del conservatorismo e ai maneggi di certi professionisti della politica e delle arti, il cui unico obiettivo era servire il proprio interesse, flirtando il minimo indispensabile con la repubblica per tirare avanti e aver garantita la propria esistenza all’interno della collettività.
Più di ogni altra cosa, ad affondare il progetto di Weimar fu proprio l’amore freddo della maggior parte di coloro che vi aderirono. Mai, denuncia Peter Gay, vi fu un coinvolgimento autentico. Per molti si trattò di una scelta per esclusione, altri addirittura la vissero come un obbligo forzoso che gli eventi avevano costretto ad assolvere, una sorta di giogo da sopportare in attesa di una soluzione. Il blando attaccamento, quando non l’aperto disprezzo, furono dunque i veri carnefici di Weimar. Ciò che nel decennio repubblicano (1919-1929) si era cercato di esorcizzare, ossia gli spettri del militarismo, dell’antisemitismo, della violenza nel dibattito pubblico, finì per riesplodere al massimo della virulenza, facendo a brandelli le istituzioni che erano venute alla luce dopo un parto tanto faticoso.
Coloro che ebbero chiara percezione del pericolo e a vario titolo dimostrarono sul campo vigore e decisione nel denunciarlo, e non furono pochi, vennero comunque ridotti alla condizione di outsiders, quando non banditi e duramente estromessi da ogni forma di partecipazione attiva.
Non a caso il titolo originale dell’opera di Gay è proprio The outsider as insider, a significare che la società weimariana fu, dall’inizio, destinata ad articolare una parte cospicua della propria esistenza fuori dai canoni. Fu una cultura che fiorì ed agì trasversalmente, ebbe un imprinting a-convenzionale, si avviò nella clandestinità e proseguì sul proprio cammino di rottura. I suoi artigiani più creativi e affezionati giocarono in realtà fuori campo e tuttavia continuarono, finché ne ebbero facoltà, a gettare i semi preziosissimi della loro opera dentro i fertili solchi improvvisamente aperti tra le ceneri imperialiste.
Quella di Weimar si connotò da subito come una cultura da esuli. La maggior parte dei suoi artisti, intellettuali, ricercatori, alimentarono una schiera di ingegni raffinatissimi e inquieti che in patria ricoprirono la posizione di battitori liberi, spesso nella consapevolezza del rovinoso logoramento al quale mese dopo mese erano sottoposte idee, istanze e propositi messi al servizio e schierati a presidio della repubblica.
Thomas Mann, Friedrich Meinecke, Walter Benjamin mostrarono un impegno costante nel rilevare trappole, incongruenze, atteggiamenti in difetto disseminati ovunque nel fragile organismo democratico che si andava costruendo.
All’indomani del viaggio attraverso la Germania in preda all’inflazione, nel 1923, Benjamin presentì i rischi pesantissimi corsi dal proprio paese, e la sconfortante visione alimentò, nel corso degli anni, un’amara consapevolezza: «Ciò che rende totale il grottesco isolamento della Germania agli occhi degli altri europei, ciò che porta costoro, in fondo, ad atteggiarsi nei confronti dei tedeschi quasi avessero a che fare con degli ottentotti è la violenza, del tutto incomprensibile a chi sta fuori e per nulla presente alla coscienza dei reclusi, con cui le condizioni di vita, la miseria e la stupidità rendono in questo luogo gli uomini sottomessi alle forze della collettività come solo la vita di un primitivo è condizionata dalle leggi del clan. Il più europeo di tutti i beni, quella più o meno piccata ironia con cui l’esistenza del singolo reclama sempre un corso dissimile dalla vita della collettività nella quale esso si ritrova sbalzato, i tedeschi l’hanno smarrito del tutto» (Da Einbahnstraße, “Kaiserpanorama”).
Sapeva, lui come altri, che dietro la malmessa facciata avevano continuato a covare le braci di un ingombrante e funesto passato con cui si sarebbe rinvigorito il fuoco di antichi errori. Ernst Toller, che proprio nel compromesso aveva colto la fine, e perciò scelse di aderire alla repubblica sovietica, cosa che gli costò cinque anni di detenzione, ebbe modo di sperimentare, anche lui tra i primi amanti illusi e traditi, l’inesorabile avanzarsi della minaccia.
Questa tragica esperienza occupa le pagine della sua autobiografia, Eine Jugend in Deutschland (Una giovinezza in Germania), cominciata il giorno del rogo dei libri sulla Babelstraße, quando ormai la deriva aveva chiaramente assunto il suo aspetto più fosco. Il meccanismo, quello stesso che aveva fornito l’oppiaceo alle giovani generazioni per annullarle, era da tempo in funzione. La giovinezza d’Europa, cui Toller rivolgeva l’estremo commosso appello, era stata ingannata e svenduta al nuovo padrone, senza che nessuno si battesse per strappargliela. Per due volte i padri furono ciechi al sacrificio dei figli; la prima guerra mondiale non era stato un dramma sufficientemente atroce da far comprendere la lezione.
Ma a Weimar mancò anche la pazienza e la piena comprensione della necessità di agire razionalmente per poter rimuovere gli ostacoli incontrati dalla vita pubblica e i bisogni espressi dalla collettività. Tutto ciò avrebbe richiesto uno sforzo non indifferente ma il raggiungimento di un equilibrio nella vita pubblica sarebbe stato la salvezza, o almeno alla lunga avrebbe dato credibilità e giovamento al percorso istituzionale intrapreso.
«Certo tutto pareva andare parecchio meglio su ogni fronte durante questo primo lustro dorato degli anni Venti. La disoccupazione si era ridotta, il potere d’acquisto dei salari risollevato, l’estremismo politico pareva ormai fuori gioco, la repubblica di Weimar, insomma, si stava rivelando un buon posto per vivere. Per gradi, proprio in quegli anni, la Germania stava anche ponendo fine al suo isolamento per ricongiungersi alla comunità delle nazioni. La politica estera di Stresemann, ma, in definitiva, il puro e semplice trascorrere del tempo stavano dando il loro frutto» (Gay, p. 177). Il processo di lenta risalita non fu accompagnato dalla giusta pacatezza e neppure da un senso di misura che molto avrebbe contribuito a mantenere saldi i valori democratici e gli obiettivi ad essi ispirati.
Nel 1928, pochi anni prima del baratro, molti erano ormai i nodi venuti al pettine, nonostante la buona volontà di più d’uno avesse continuato a spingere perché il lavoro cominciato non si guastasse. La disoccupazione dei giovani e il loro massiccio reclutamento all’ideologia di estrema destra, l’arrivismo di imprenditori della politica che concentrarono nelle proprie mani ricchezza e mezzi di comunicazione, diffondendo messaggi conservatori e adulterando il confronto politico, lasciarono poco spazio agli slanci e agli entusiasmi della prima Weimar.
«La Weimar di quegli anni era però come la società sulla montagna incantata e le guance rubiconde mascheravano sintomi insidiosi. Di questi la cartellizzazione della cultura, sul modello della cartellizzazione dell’industria, fu uno dei più preoccupanti. Alfred Hugenberg, membro di primo piano della corrente di destra del già di destra partito nazionale tedesco, grosso industriale con ambizioni politiche e su posizioni irrimediabilmente reazionarie, costruì un impero nel campo dell’industria dei mezzi di comunicazione e divenne la voce stridente della controrivoluzione esercitando un’influenza enorme. Gli ufficiali, si disse, leggevano soltanto la sua stampa. Hugenberg riuscì a concentrare nelle sue mani dozzine di giornali in tutto il paese, acquistò il Berliner Lokalanzeiger, popolare quotidiano della capitale e fu proprietario di un’agenzia di informazioni dai numerosi abbonati fra cui poté propagare le «sue» notizie. Nel 1927 salvò dalla bancarotta l’UFA e la trasformò nella maggiore fabbrica di sogni a occhi aperti di tutto il paese. Personalmente insignificante, Hugenberg fu animato da insaziabili passioni politiche e odi mascherati da convinzioni e poté contare su smisurate risorse finanziarie» (Gay, pp. 177-178).
In questa breve riflessione ci premeva rilevare che l’ascesa e il declino weimariani si presentano come un cantiere ideale per cogliere molti fenomeni che hanno continuato ad affollare il concitato panorama storico e sociale del ‘900, compreso questo decennio, confuso e per molti versi regressivo, di inizio XX secolo.
Buona parte dello spirito dell’Europa contemporanea risiede nelle istituzioni e negli uomini di Weimar. La dettagliata e appassionata analisi di Peter Gay si pone come un contributo ancor più prezioso, alla luce delle tante questioni che oggi occupano i tavoli della diplomazia internazionale e le cancellerie di Stato.
Se vogliamo procedere a una soluzione serena e obiettiva dei problemi che proprio in queste ore agitano il vecchio continente, e non solo, mettendo alla prova le sue classi dirigenti, bisogna ripercorrere le tracce di questo fondamentale capitolo di storia.