Pubblicato il 17/09/2018 21:12:22
TA-PUM, TA-PUM, TA-PUM.
Il passo regolare del viandante batteva sempre le stesse note nel crepuscolo viola. Non se ne distingueva la figura; solo una consistenza più scura sulla strada lunghissima davanti alla casa permetteva agli occhi di accertarsi che una presenza si muoveva incontro alla notte, da lì verso un qualche luogo. Non si sapeva cosa desiderare: se un volto, magari noto, apparisse a sconvolgere in gioia o noia il progetto dell’ora successiva o se lasciare che restasse nell’oscurità del non conosciuto, turbando i nostri sogni con l’immagine del suo mistero mentre negli orecchi suonava senza sosta quel deciso e incancellabile TA-PUM. Ma mai, mai, mai, avremmo immaginato ciò che accadde. D’improvviso la lunghissima strada ancora avvolta alla sua estremità nell'oro del tramonto, divenne un moncherino di sentiero polveroso, sperduto in un grande deserto e il viandante era già lì, davanti alla nostra casa, e suonava senza ritegno il nostro campanello. Non si poteva fingere che non ci fosse nessuno, perché la luce dell’ingresso proiettava all’esterno le nostre ombre, e quindi andammo alla porta. Quando aprimmo, tutto si fece completamente buio e non si poteva distinguere chi o cosa avesse suonato. “Aprite!” La voce imperiosa e affascinante ci obbligò a farle posto nel nostro territorio e la curiosità di vederne le forme, di racchiudere nei nostri occhi le fattezze di colui o colei a cui apparteneva la voce ci spinse ad invitare il viandante alla nostra tavola. Speravamo così di svelarlo, per poi coprire di parole le solite linee umane, in fondo sempre le stesse sebbene orrende o armoniose. Ma dove andava il viandante, là c’era anche il buio. E quel settore di buio accomodato sulle nostre sedie dei primi novecento mangiò con noi il pane, bevve il nostro vino e ci obbligò, noi così ciarlieri, al silenzio. Non perché avessimo paura o imbarazzo, ma perché dal momento in cui aveva oltrepassato la soglia della nostra casa qualcosa era accaduto che le parole non sapevano esprimere e le domande morivano nello stesso istante che nascevano. Restavamo a guardarlo, immersi in un totale incantamento, eppure assolutamente coscienti di ogni piccolo movimento di quel buio assoluto che abitava in quel momento la nostra sala da pranzo e che ingoiava con calma la mela che mamma aveva sbucciata. Ingoiava... Meglio dire che la faceva sparire nella sua oscurità. Una oscurità vuota di parole, ma vibrante di ogni parola detta e indicibile, di tutti i versi, i suoni, i canti che ogni mente potesse immaginare aggirarsi per l’universo per essere raccolti ora qua ora là nel corso del tempo dalle generazioni degli uomini e degli esseri. E il tempo stesso pareva non avere più ragione di esistere, tutto accadeva in un’esistenza dilatata fino all’eternità e appariva sublime la caffettiera che alzava sbuffanti volute nella cucina odorosa di grassi, la tazza che ne accoglieva il liquido schiumante e profumato, il gesto con cui quest’esistente dove i nostri sensi non potevano raggiungerlo beveva con il nostro stesso piacere il caffè zuccherato e fumante. Poi si alzò, ringraziò per l’ospitalità abbracciandoci uno per uno ed uscì nella notte scura. Sopra di noi brillavano miliardi di stelle. Chiudemmo la porta e andammo a dormire, esausti. L’ indomani ciascuno di noi aprì le imposte convinto di aver sognato, ma fuori vi era solo il deserto e un moncherino di sentiero portava a casa nostra.
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