Albertine venne ad aprirmi alla prima scampanellata, ma la cosa fu piuttosto complicata, perché Françoise era fuori e Albertine non sapeva dove accendere. Alla fine riuscì a farmi entrare, ma i fiori di filadelfo la misero in fuga. Li posai in cucina, così che la mia amica, interrompendo (non capii perché) la sua lettera, ebbe il tempo d’andare in camera mia, da dove mi chiamò e di stendersi sul mio letto. *
L’iris prigioniero
Mio caro Marcel,
se solo il tempo offrisse un’altra possibilità, diversa, non necessariamente migliore, o se all’interno di una unica scelta si potessero serbare delle parti e renderle immortali, slegate dallo sfacelo che colpisce le altre. E se non vi è un’altra possibilità vorrei poter salvare qualcosa, riuscire a trasformare qualche atomo di decadimento per far sì che tutto non si possa rivelare inutile. Mi accorgo che è giunto il mattino dalle strisce chiare che si incidono nel nero della finestra, ancora qualche momento e potrò smettere di fingere di dormire per ricominciare a fingere di vivere. Questa mattina la luce porta con sé qualche grado di temperatura, la primavera sta decisamente sciogliendosi nell’estate, gli iris staranno decomponendosi sui loro steli, là, da qualche parte nel mondo libero. Il loro colore sta sicuramente già scivolando verso sfumature cineree, gli steli si fanno gonfi e fragili come se l’aver prodotto un pezzetto di arcobaleno li abbia sfiancati, e il leggiadro profumo diventa quasi un veleno per i sensi, capace di ottundere le menti e portarle a sciocchezze inusitate. Ma loro serbano, in segreto, qualcosa che non si può cogliere, un segreto che chi strappa gli steli per farne composizioni non può notare; qualcosa che chi crede di ingabbiare il segreto della bellezza degli iris non sospetta. Proprio come me, fatta prigioniera, rinchiusa, recisa per ammirarne bellezza e fragranza; vorrei che almeno la parte più recondita di me, la mia radice di donna possa essere come la radice degli iris capace di celare un segreto insospettabile ed evocativo di ciò che sono stati, liberi da finzioni. Nei rizomi delle radici è racchiusa la loro forza e il loro segreto, quella peculiarità, oserei dire ricchezza, che non si nota, e per questo non si desidera cogliere o imprigionare, e invece è la cosa più preziosa ancorché sfuggente. È addirittura capace di farsi passare per straniero, gli si affibbia un nome che riecheggia il suo ed ecco fatto, da iris a Orris, il segreto è salvo e i tentativi di farlo prigioniero si fanno vani. Già, anche io ormai sto per sfiorire, tutto il miele e la bellezza che mi circondano consumano il mio ossigeno, mutano il mio colore in una tinta degna di Ade.
La mia stanza è ormai in piena luce, mi alzo e mi getto sulle spalle il mantello decorato con scene di una Venezia che appartiene solo all’oblio, giungo nel salotto al cospetto del suo popolo silenzioso, fatto di austere poltrone in pelle. Il sole, nel suo percorso, insinua le sue agili dita fra le tende giungendo a sfiorarle col suo calore luminoso e questo tocco le fa quasi trasalire e vibrare del loro sentore più animale. Che è il mio richiamo verso la natura libera, i miei polpastrelli ne seguono la liscia perfezione ottenuta dai conciatori e il ricordo della sella di un cavallo mi fa rabbrividire. Per il mio olfatto, e con esso le parti più recondite dei miei ricordi, questa fragranza animale richiama una corsa senza freni, non come la tuberosa o il filadelfo il cui sentore invece è per me come le sbarre di una prigione. E ricordo quella volta che me ne portasti un fascio e per poco non soffocai, ma riuscii a fare qualcosa di cui, finché non ti sono sfuggita, non hai mai sospettato, ma solo avendomi remissiva e docile hai iniziato a comprenderne la portata. Ora so di questi tuoi progetti di lasciarmi che si vanificheranno non appena saranno possibili, in un eterno rincorrersi di gelosia che nutre l’angoscia e con essa il legame, in alternanza alla tranquilla serenità che, come marea che si ritira, lascia intravvedere la striscia di sabbia che è la salvezza di chi resta imprigionato tra gli scogli. E non bastano l’ozono del mare, la luce del sole a dare la speranza della salvezza, serve l’ebbrezza del sentire la riva vicina. Il balsamo dei pini, il richiamo delle rose fiorite appena oltre la macchia che circonda la spiaggia, il sentore della vaniglia che colora di tenui tinte l’aria di una mattina carica di buoni propositi bastano a far sentire il prigioniero degli scogli con un piede già sulla soglia di casa. Però, appena la via di fuga è resa possibile dal moto della marea, risorge il panico, il terrore di essere proprio in quel punto e di avere rischiato di restare schiacciato tra i massi affiorati, soffocato dall’apporto acre delle alghe al già temibile sentore muschiato e salmastro del luogo E così è per noi, le nostre vite al sicuro ci incutono terrore, ci spaventa il poter stare bene, aver quel poco che ci può rendere felici ma che un nonnulla ci può strappare e gettare lontano. E allora tu scegli la via del dolore, sicura e affidabile, la sola che non può tradire perché di tradimento è lastricata, è il dolore ad essere immortale, capace di intorpidire la mente al punto da farla sentire sollevata anche dai lenimenti del più umile e blando balsamo. Tu credi che io non sappia di come mi fai spiare, di come ogni mia mossa sia passata al vaglio per tutte le interminabili ramificazioni della tua insonnia. Ma se tu mi avessi sarebbe ancor più doloroso doversi accontentare, dover terminare la ricerca della perfezione, cullati nella mediocrità della serenità. Come più è variopinta e cangiante la sofferenza della gelosia, si nutre di poco, di qualche seme di serenità che nel vuoto esplode fragoroso per poi ricostruire intatto ed ancor più forte il dolore che accorre a estinguere la fiammella della speranza con tonnellate di dubbi, di conferme dolorose, di sospetti esasperanti, elucubrazioni, corse a ritroso nella memoria. Sotto le mie dita questo cuoio della poltrona già freme come i finimenti di un cavallo in corsa verso l’unica cosa sincera, reale, completa, che non ha bisogno di sospetti, regge qualunque confronto con ciò che è stato e con ciò che avrebbe potuto essere. Nelle valige, anch’esse di cuoio, che Françoise mi sta portando metterò solo i profumi di questa mia prigionia, perché tra poco anche io sarò solo un ricordo olfattivo, ogni cosa che sarà stata in contatto con me e con la nostra vita insieme, ogni qual volta che passerà sotto il tuo naso, sarà in grado di ricreare tutto il mondo che abbiamo voluto distruggere per riuscire ad amarci. Sarò l’aria del mare e il decadere delle alghe sulla spiaggia di Balbec al mattino, il tabacco e l’assenzio delle matinée al casino, mischiato alla mimosa dietro la quale giocavamo a furetto con la piccola banda. Mi ritroverai in ogni pompelmo del mattino al tavolo dietro la vetrata del Grand Hotel, insieme al gelsomino e alla lavanda che illuminano di pulito la biancheria passata nelle mani di Françoise. Porto via con me il cuoio delle valige e il sentore dei miei amati cavalli, insieme al muschio e all’ambra di questa bella dimora in cui riecheggiano i richiami dei venditori ambulanti o il campanello dei tram, ma non riecheggia mai la parola amore. L’unico fiore che non è mai sbocciato in questo giardino rampicante cresciuto su delle rovine, come le cattedrali che mi portavi a dipingere per illuderti che una vita più spirituale avrebbe spento il mio lato ferino, pensavi che appiattendo il mondo su di una tela avremmo potuto privarlo di una dimensione, quella del dolore, che invece fiorisce in ogni angolo. Ed ora eccomi iris sfiorito, reso molle e pesante dall’estate che scalda troppo l’aria, ma nel fresco del sottosuolo c’è un rizoma che conserva la parte più preziosa di me e che resterà per sempre con te, dovrai aspettare, pulire la radice, saperla lavorare e vedrai che alla fine ti avrò donato qualcosa di immortale e che tutti ammireranno. Ti lascio ora che l’aria profuma di benzina, di motore, della velocità e dello spostamento che tanto bramavi e ti proponevi una volta che avresti trovato la forza di lasciarmi, io lo faccio invece lentamente, facendo maturare qualcosa che di me sarà sempre tuo, me ne vado con una valigia in una mano e il profumo di cuoio e legno lucido nei ricordi.
Ripenso a quella mattina che ti rese tanto felice; quella mattina la cui luce portava con sé qualche grado di temperatura, la primavera stava decisamente sciogliendosi nell’estate.
Addio, tua
Albertine
La bella stagione, quella notte, fece un balzo in avanti, come un termometro che il caldo fa salire. Quando mi svegliai, dal mio letto, in quelle mattine presto rideste di primavera, sentivo i tram passare attraverso i profumi nell’aria cui sempre più si miscelava il calore, sino ad arrivare alla solidificazione e alla densità del mezzogiorno.*
*Alla ricerca del tempo perduto – La prigioniera, Marcel Proust, I meridiani (Mondadori) Traduzione di Giovanni Raboni
Racconto pubblicato in "Proust N. 7 - Il profumo del tempo.
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