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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Thy Kingdom [of dreams] come

di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 12/07/2018 09:16:54

Angélique percorre con passo spedito il vicolo acciottolato, appena sbuca sulla piazza della cattedrale si abbassa la pesante veletta nera sino al mento e si stringe nel leggero scialle che le cinge le spalle. Socchiude gli occhi e inala i sentori imprigionati nei tessuti creando attorno a lei una sorta di amnio ronzante dei profumi che la fanno sentire a casa. Si sente circondata dal sentore delle rose che non mancano mai sul comò della camera da letto, accanto a un ritratto del suo povero Edouard, salpato una mattina come tante con il suo peschereccio con la speranza, che sempre lo accompagnava, di tornare con la stiva piena di pesci. Malauguratamente un pomeriggio di un anno prima il piccolo vascello era tornato senza pesci, come talvolta accadeva, ma anche senza pescatore, e così ad Angélique anziché saltare una cena da quel giorno le era toccato saltare una vita. Dalla veletta sente spandersi l’ambra appena talcata dei suoi cassetti che, chissà come, oggi sembra essersi mescolata con la cannella, che sta abitualmente riposta in un barattolo nella credenza, e con quel sentore di cedro e vetiver che sentiva addosso al suo defunto marito la domenica, quando si preparavano per la abituale passeggiata sul corso della città. Ora che lui non c’è, non restano che poche molecole imprigionate fra le fibre della sua veletta, forse anche sui guanti; il profumo acuisce il ricordo e, con esso, il desiderio che la tiene desta durante tante interminabili notti, ad ascoltare il rombo del mare, a desiderare che qualcuno torni, o che qualcuno arrivi. Angélique sa di essere in ritardo per la funzione, vede le ultime donne uscite dalla cattedrale attardarsi a chiacchierare in piccoli capannelli qua e là sul sagrato, come macchie di inchiostro sul marmo reso opalescente dal forte sole del tardo mattino. Al passaggio di Angélique alcune di queste donne la indicano mute con lo sguardo, altre si voltano per non dover essere toccate dal terribile dolore di quella donna che solo abbassa gli occhi stringendo le labbra, come a reprimere uno spasmo. Passando nota di sfuggita una figura seduta sui pochi scalini della cattedrale, la oltrepassa serbando nell’angolo della visuale un’ombra di colore scuro che per pochi fuggevoli istanti le richiama alla mente lo storace, poi è nel buio. Sosta accanto alla conchiglia di marmo in cui intinge le dita mentre gli occhi le si abituano alla mutata luminosità, osserva incantata fragili lamine di luce multicolore fendere l’oscurità, resa densa e massiccia da ampie volute di incenso che si muovono lente verso l’alto donando una diversa intensità alla penombra che permea il luogo. Alcuni frammenti di luce azzurra si posano sulle panche verso cui si sta avvicinando facendole fiorire dei mille ronzii della cera balsamica di ambra e pepe nero. Accompagnata dai sentori percorre la navata avvicinandosi all’altare, crede di essere sola, poi nota un sacerdote, avvolto di gabardine nera, allontanarsi svelto dal confessionale smuovendo le pigre volute di incenso con improvvisi luccichii di verde galbano e bergamotto, sparisce nella sacrestia lasciando Angélique sola, seduta su di una panca a cercare un po’ di pace che oggi sembra tardare tanto a portarle conforto. Dall’altare invece che l’elevazione dei pensieri le giunge, da iris e tuberose, il sentore dolciastro del decadimento che sembra far scivolare di continuo i pensieri della donna verso direzioni inattese. Cerca di sgranare le familiari parole delle orazioni, ma i suoi sensi sono stranamente vigili, nota i cambiamenti di intensità della luce, sente il rintocco dell’ora e la porta alle sue spalle chiudersi con un tonfo sommesso seguito da un grappolo di passi veloci che si arrestano poco distante da lei. Immagina sia la solita pia donna che viene a recitare il rosario per il marito malato o per il figlio lontano e non ancora tornato. Non è molto che la guerra è terminata e c’è ancora chi spera di potersi ricongiungere coi propri cari sbatacchiati qua e là per l’Europa martoriata. Vinta dalla curiosità si gira un istante e riconosce la sagoma che aveva notato entrando nella cattedrale, poi si volta, sistema la pesante gonna scura mentre si inginocchia per tentare di trovare la concentrazione necessaria per invocare la pace su di sé e sull’anima del marito. Un nuovo scalpiccio alle sue spalle e una improvvisa ventata di spezie esotiche, tra cui brillano violacei dei fiori di zafferano avvertono Angélique, che l’uomo si è seduto alle sue spalle, nel pulviscolo che la circonda si insinuano note di alberi con radici lontane e nomi inimmaginabili, così come gli strani pensieri che questi aromi le insinuano nella mente. D’un tratto sente la mano dell’uomo sfiorare la sua spalla, accompagnata da sillabe in un idioma incomprensibile, poi l’uomo s’alza e si dirige verso la fine del transetto. Lo guarda, ne soppesa l’andatura, le spalle robuste, il passo determinato, l’uomo si ferma a guardarla poi sparisce dietro la spessa e polverosa tenda viola del confessionale. Angélique si sente gelare il sangue, poi avvampare, la testa le ronza un po’ ma un istinto animale la spinge ad alzarsi e a guadagnare in fretta il confessionale, ne scosta appena la tenda e vi si insinua. L’uomo la sta aspettando, è di fronte a lei, la camicia sbottonata da cui si spande, mischiato ad un vago e caldo afrore maschile, il sentore degli abiti, ad Angélique giungono le deliziose note del patchouli tra cui emerge improvviso il sussurro del vetiver, che la riporta a qualche momento prima, lungo la strada, poi ancora più indietro, quel profumo le giunge dal passato, da Edouard. Tentenna, poi si getta fra le braccia dello sconosciuto. L’uomo le alza lesto le pesanti gonne nere e la fa sua, i movimenti stentano a contenere una urgenza imperiosa ma hanno una fermezza assorta, quasi di calma lustrale. Angélique gli si arrende, non può farne a meno, le loro carni sono unite, i loro profumi si mescolano mentre le pigre volute di incenso li avvolgono, celando il loro segreto. Dopo il piacere l’uomo lascia andare un lungo sospiro profumato di dolce cannella, la bacia sulle labbra e mentre si riabbottona la camicia Angelique nota sul petto dell’uomo un tatuaggio, la luce è flebile, aguzza la vista. Il disegno mostra una nave avvolta dai tentacoli di una piovra gigantesca, a incorniciare la scena un cartiglio col nome della nave. La donna si mette la mano davanti alla bocca, sgrana gli occhi, la nave si chiama Ambrosine. La nave di Edouard. Angélique esce rapidamente dal confessionale, a lunghi passi raggiunge l’uscita e si tuffa nella luce del primo pomeriggio, chi è costui?, si domanda, da dove giunge?, e cosa significa la sua apparizione? Attraversa il sagrato con il tatuaggio appena visto ancora negli occhi, non se lo può togliere dalla mente, come l’ombra di un maleficio, o il timore di esso. Il cartiglio con il nome della nave inciso nella pelle ambrata dell’uomo domina i pensieri tumultuosi di Angélique. Si riabbassa la pesante veletta, torna nella sua sfera di aromi familiari ma in essi si è insinuata la nota amara del pepe, così come nei suoi pensieri.

 

 

Racconto pubblicato in Proust N. 7 - Il profumo del tempo, di Aa.Vv.


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